Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 28 Sabato calendario

ORSI & TORI – Non deve essere stato facile per il presidente Giorgio Napolitano mettere insieme nella stessa giornata (venerdì 27), da una parte la razionalità e anche le emozioni di un convegno della Bocconi per ricordare Luigi Spaventa, diventato di fatto una straordinaria occasione di analisi dell’economia italiana, e dall’altra il clima di frenetica irrazionalità della politica romana

ORSI & TORI – Non deve essere stato facile per il presidente Giorgio Napolitano mettere insieme nella stessa giornata (venerdì 27), da una parte la razionalità e anche le emozioni di un convegno della Bocconi per ricordare Luigi Spaventa, diventato di fatto una straordinaria occasione di analisi dell’economia italiana, e dall’altra il clima di frenetica irrazionalità della politica romana. Bastava seguire, negli ampi saloni della Bocconi, la conversazione post convegno fra il presidente della Bce, Mario Draghi, e il direttore responsabile delle aste dei titoli di Stato, Maria Cannata. Com’è andata l’ultima asta? Con la serenità di chi da anni gestisce la bestia indomabile del debito pubblico, la universalmente stimata Cannata ha risposto con un sorriso: bene, le aste sono andate bene. Hanno sottoscritto quote significative anche gli italiani. Ma il rendimento dei titoli è aumentato... Sì, sì, di 20 punti base (cioè dello 0,20%) ma non ci si può lamentare né preoccupare. E Draghi: ecco vedete, ci sarà ancora una volta un gran caos (sottintendendo, se ci sarà, la crisi di governo) ma poi non succederà nulla di drammatico, né in negativo ma purtroppo neppure in positivo. Come dire che in buona misura il mercato è vaccinato e pronto alle ulteriori eventuali manifestazioni di disgregazione del sistema italiano. Il deficit annuo è al 3%, cioè migliore di quasi tutti gli altri Paesi europei. Quindi non c’è panico. La Bce ha molti bazooka da usare per ogni evenienza, ma il grave è che la situazione non migliora. E se non migliora, non solo non ci sarà la ripresa, ma prima o poi ci sarà la crisi decisiva. Nei colloqui fuori dal convegno qualcuno ha ricordato le previsioni funeste dei professori Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che detto fra parentesi è colui che ha promosso il convegno in memoria di Spaventa, economista formatosi a Cambridge, deputato della sinistra indipendente, ministro del Bilancio nel governo Ciampi, presidente della Consob e dell’Mps trasformato in spa e accompagnato in borsa. I due professori columnist del Corriere della Sera, rispondendo al viceministro Stefano Fascina, che aveva criticato duramente un loro articolo nel quale auspicavano il taglio della spesa pubblica di almeno 50 miliardi all’anno per salvare l’Italia, hanno risposto così: «Certo che, finché membri autorevoli del governo pensano che “non si deve tagliare il debito, si deve riqualificare e riallocare la spesa pubblica attraverso piani di riorganizzazione industriale” né il debito pubblico né le tasse sul lavoro potranno essere mai ridotte e questo povero Paese va diritto verso il ripudio del debito, accompagnato dal fallimento delle nostre banche e da una recessione che ci farebbe rimpiangere quella che stiamo vivendo». Poco più in là da Giavazzi (Alesina era assente), l’ex boiardo (bravissimo) di Stato, Fabiano Fabiani, vero amico di Spaventa, appariva furioso verso le previsioni dei due economisti e non perché sia contrario al taglio della spesa. In ogni caso, è il suo pensiero, non succederà niente di quanto è stato da loro previsto. Ma il Paese è sicuramente nel caos. Su tutto sta prevalendo l’egoismo. Nessuno (o quasi) pensa più al bene comune, ma solo al proprio interesse. Quando accade questo non si può non temere, almeno temere, il peggio. Lo temono tutte le categorie imprenditoriali, dalla Confindustria, all’Abi, alle altre associazioni, che per questo hanno inviato una sorta di ultimo appello ai partiti, al Parlamento, al presidente della Repubblica perché nel Paese non sia interrotta l’azione di governo, pur debole che sia. Nessuno può fare previsioni ragionevoli sino all’ultimo, cioè fino al voto nella commissione che sta giudicando Silvio Berlusconi, o addirittura sino al voto dell’assemblea del Senato per la decadenza del capo di Forza Italia, qualunque siano le mosse del presidente del Consiglio, Enrico Letta, o del presidente della Repubblica Napolitano. Il sistema è impazzito, ma potrebbe anche essere vicino il fondo della disgregazione e quindi potrebbe, dovrebbe, ripartire un circolo virtuoso. Il pessimismo è prevalente perché nessuno fa niente di quanto dovrebbe fare. Il Pd è come cloroformizzato dal caso Berlusconi, che finisce per diventare la scusa per non far niente di che cosa serve al Paese. Per questo attribuire tutte le responsabilità dei mali d’Italia a Berlusconi appare puerile. Basta pensare ai due casi clamorosi di politica industriale (in mano al ministro pd dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato) che riguardano Telecom e Alitalia. Sulla società di telecomunicazione anche il presidente Letta ha iniziato sbagliando il tono, quando ha dichiarato che trattasi di società privata. È vero, la sciagurata privatizzazione con il nocciolino che consegnava il comando della società allo 0,7% posseduto dalla Fiat ha reso Telecom una società completamente fuori dalla sfera pubblica, pur essendo chiaro che la rete è un asset strategico del Paese. Basta vedere quanto di diverso hanno fatto la Francia, che conserva pubblica la quota maggiore di France Télécom, oppure la Germania, che ha tuttora interessi importanti in Deutsche Telekom. Gli azionisti italiani di Telco (che possiede il 22% di Telecom) sono tutti fra le più grandi società del Paese: Generali, Intesa Sanpaolo, Mediobanca? Erano intervenute in una logica di sistema Italia, proprio nella consapevolezza che Telecom fosse strategica. Ma oggi a causa della crisi sono tornate a ragionare in termini di singola società e non erano disposte a incamerare le perdite che la caduta di valore del titolo in borsa impone nei bilanci per le regole contabili internazionali. Così hanno cercato una soluzione interna a Telco, decidendo di far passare in maggioranza assoluta Telefonica, che ha accettato di buon grado avendo la possibilità di diventare il dominus con un esborso relativamente contenuto (intorno al miliardo di euro). Essendo tornato a prevalere l’interesse singolo, come può essere razionale sul piano di società quotate in borsa, non si sono preoccupate di cercare soluzioni alternative. Il governo e il Parlamento hanno completamente ignorato il tema fino a quando non c’è stata l’audizione del presidente Franco Bernabè. Bastava guardare al di là delle Alpi: Swisscom, che è già in Italia con Fastweb, e che con meno di 10 milioni di abitanti capitalizza moltissimo, non avendo sostanzialmente debiti, poteva sicuramente essere un interlocutore più che valido. Invece è passata Telefonica, che, anche se guadagna proporzionalmente meglio di Telecom Italia, ha un indebitamento quasi doppio di quello della società italiana. A giudizio di molti analisti, quindi, non è proprio l’azionista giusto per una società che ha proprio nell’indebitamento il suo punto debole. Da mesi era sul tappeto l’ipotesi di scorporo della rete e di cessione di una quota importante alla Cassa depositi e prestiti (Cdp). Prima il regolatore AgCom ha complicato la trattativa abbassando le tariffe di vendita del servizio di rete a terzi, tale da rendere poco remunerativa l’attività; dall’altra (anche per questo inopinato intervento di AgCom) la Cdp non ha portato a conclusione la trattativa. Ora, quando i buoi sono quasi scappati dalle stalle, si pensa di poter rimettere in discussione il primato di Telefonica con atti che poco si addicono alle regole del mercato di società quotate in borsa, ma che probabilmente sarà inevitabile compiere dopo l’allarme per la sicurezza del Paese lanciato dal Copasir. Per Alitalia la situazione sarebbe più semplice ma è anche più imbarazzante: i privati raccolti da Intesa Sanpaolo gestione Corrado Passera per ora non ce l’hanno fatta a rilanciare la società; sono molto restii, anche per obiettive scarsità di capitali in questo momento, a immettere i denari necessari per continuare nel tentativo. Tentativo che comunque non può avere un esito sicuro, visto che nel settore la dimensione è fondamentale. In questo contesto Air France, che possiede il 25%, cerca di replicare l’operazione Telefonica e per un tozzo di pane arrivare al 50%. Eppure la soluzione ci sarebbe. Cdp ha creato il cosiddetto Fondo strategico italiano, guidato da un uomo capace come l’ex Merrill Lynch Maurizio Tamagnini. Il fondo ha una disponibilità di oltre 4 miliardi di euro. Che cosa ci può essere in Italia di più strategico di una linea aerea nazionale che possa garantire il trasporto dei flussi di turismo senza i quali il Paese non si risolleverà? C’è in Italia un’industria più strategica del turismo? Il Fondo guidato da Tamagnini sta esaminando la creazione di altri fondi per sviluppare l’industria turistica. Possibile che non possa trovare, dati anche i rapporti internazionali di Cdp, un partner asiatico con il quale formare maggioranza in Alitalia, consentendo ai privati che hanno messo finora i capitali di vederli fruttare, anche se dovranno rinunciare al controllo, che peraltro è molto frazionato? Dipendono dal ministero dell’Economia la Cdp e di conseguenza il Fondo strategico, verso il quale nei giorni scorsi c’è stato un legittimo richiamo all’attuazione della sua ragione sociale da parte del Corriere della Sera per la penna di Fabio Tamburini. Il presidente Franco Bassanini e l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini devono quindi coordinarsi con il ministro Fabrizio Saccomanni, il quale in modo paradossale sta impiegando il suo tempo a trovare 1 miliardo di euro di risorse per evitare il rincaro dell’Iva. Il presidente Letta ha disciplinatamente (e anche con efficacia, specialmente nell’intervista al canale Cnbc edito da Class Editori) cercato di promuovere gli investimenti in Italia. Maria Bartiromo, che segue sempre con interesse l’Italia, gli ha fatto dire cose importanti per persuadere capitali stranieri a venire in Italia. Ma gli ha chiesto anche quale garanzia dia il sistema giudiziario italiano e la risposta non ha potuto essere che diplomatica. Per veder arrivare in Italia capitali esteri ci vorrà quindi tempo, anche se il governo rimanesse in carica per il periodo programmato. Figuriamoci se non ci sarà più il governo. Ecco perché almeno i capitali del Fondo strategico devono essere immediatamente impiegati per scelte strategiche, come appunto il turismo e con il turismo Alitalia, che potrà, dovrà, alleandosi con operatori asiatici o arabi, sviluppare i collegamenti con tutti i Paesi a forte crescita. Dei 300 mila turisti cinesi a cui nel 2012 sono stati concessi visti dalle autorità italiane soltanto una minima parte sono entrati nell’area Shengen dall’Italia. Nel 2013 probabilmente i visti saranno ancora di più e per parlare solo dei cinesi sono attesi 1 milione di turisti nel 2015 in occasione dell’Expo. Che ci sia o non ci sia il governo, queste scelte vanno fatte e subito. Air France è, come Telefonica, altamente indebitata e sta cercando di rilanciarsi con un ambizioso complesso piano industriale appena lanciato. È proprio il caso di vendere per due lenticchie anche una società che più strategica non può esserci? Oppure quei miliardi del Fondo strategico devono essere subito usati appunto per un investimento strategico?