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 2013  settembre 28 Sabato calendario

DOLCE VITA IN GABON

C’è una capitale dove si parla francese, lo champagne scorre a fiumi e una minoranza di stranieri con la pelle di colore diverso dalla popolazione locale stenta a vivere, dato che per loro - lo dice una classifica Mercer - questa è la settima città più cara del mondo. Per essere più precisi, la minoranza ha la pelle bianca, i fiumi di champagne non sono un modo di dire (il Paese è fra i primi venti consumatori del pianeta), la nazione non è la Francia ma il Gabon e la città è Libreville.
Le ragioni che l’hanno resa proibitiva per i 10mila francesi che la abitano (un pasto al fast food arriva a costare oltre 20 euro) sono presto elencate, e stanno perlopiù nel sottosuolo: diamanti, oro, uranio, ferro, manganese, gas naturale, legname pregiato e soprattutto immensi giacimenti di greggio. Fu quando vennero scoperti questi ultimi, nel 1968, che il Gabon sorse dal fango e dalla foresta pluviale che ne ricopriva buona parte della superficie. Il presidente Albert-Bernard Bongo, convertito all’Islam col nome di El Hadj Omar Bongo, era al potere da un anno e vide crescere a dismisura sotto il proprio scranno l’impressionante mole del prodotto interno lordo, che in 20 mesi raddoppiò.
Il Gabon aveva e continua ad avere tutti i numeri per essere uno dei Paesi più ricchi dell’Africa, oltreché il più stabile: mai una sola guerra nella storia postcoloniale (cominciata nel 1960 con l’indipendenza dalla Francia) e un solo tentativo di colpo di stato, per giunta fallito. Ma nei 41 anni trascorsi al potere, Bongo ha eliminato gradualmente tutte le forme di opposizione, in genere comprandole con gli spiccioli, e ha distribuito le ricchezze alle famiglie più influenti, creando un’oligarchia di milionari che scolano Veuve Cliquot e hanno sviluppato una propensione senza eguali nel Continente nero per l’esibizionismo opulento e un po’ kitsch.
Se ne erano visti i primi segni già nel 1977, quando il summit dell’Organizzazione dell’Unità africana a Libreville, costato la bellezza di un miliardo di dollari, celebrò il raggiungimento dell’orgasmo economico da parte del Gabon. Lo scrittore David Lamb descrisse l’evento nel suo libro The Africans: «I presidenti sfrecciavano sulle loro Mercedes-Benz e sulle Cadillac con le sirene spiegate. La guardia d’onore gabonese, coi mantelli di velluto rosso e le spade d’oro, era allineata lungo il viale d’ingresso alla sala della conferenza. Quella settimana le prostitute non lavoravano, poiché Bongo aveva ripulito le strade con l’avviso: "Durante il summit aprite il vostro cuore, non i vostri corpi"».
Nello stesso periodo, per non farsi mancare nulla, Bongo aveva completato la costruzione del palazzo presidenziale, una specie di maniero di vetro che incombe sul centro di Libreville, i cui marmi italiani, le colonne greche e le immancabili placcature dorate avevano fatto lievitare il conto a 800 milioni di dollari.
Da allora l’oligarchia non ha smesso di arricchirsi e la capitale non ha fatto che crescere a uso e consumo dei suoi capricci, col risultato che a ridosso delle baraccopoli dove negli anni si sono riversate centinaia di migliaia di persone in cerca di fortuna dall’entroterra (a Libreville si concentra la metà del milione e 600 mila abitanti del Gabon) sono sorti interi isolati di ristoranti di lusso, night club, ville residenziali il cui costo al metro quadro compete con la City londinese, boutique di stilisti, vetrine dove troneggiano cellulari in edizione limitata da 5mila euro, concessionari di automobili presso i quali, raggiunto un certo status, potete scambiare la vostra vecchia Porsche con una Ferrari o una Lamborghini, negozi di arredamento i cui eleganti commessi vi illustrano le caratteristiche di un tavolo da pranzo - produzione artigianale italiana - che potete mettervi in casa sborsando 20mila euro, comprese sei sedie. E per chi non riesce a spendere abbastanza, c’è sempre la possibilità di bruciare una cifra a piacere nel casinò Croisette, il cui edificio di cristallo scintilla sul lungomare.
Nel frattempo, alla periferia della capitale e nel resto del Paese la vita arranca come può, sotto i tetti di lamiera arroventati dal sole, con uno standard terzomondista che il governo non si dà troppa pena di migliorare, lasciando che ci provino al suo posto le numerose Ong internazionali presenti sul territorio. Per fare un esempio, tralasciando le solite statistiche del settore sanitario che risulterebbero troppo deprimenti: con una superficie pari a quella dell’Italia al netto delle isole, il Gabon vanta 650 chilometri di ferrovie e nemmeno 1000 di strade asfaltate.
Questa è una delle ragioni per cui i milionari con la passione della velocità, quando hanno voglia di sfogarsi al volante della loro Ferrari, usano - in genere dopo il tramonto - il Boulevard de l’Indépendance (il lungomare di Libreville), l’eccellente rettilineo del Boulevard Triomphal Omar Bongo che taglia a metà la città, o, se non sono disponibili abbastanza agenti di polizia per bloccare le strade, la pista dell’aeroporto militare.

«Da quando sono stati benedetti dalla ricchezza, i gabonesi sono intenzionati a spassarsela come si deve», mi ha detto Serge Abessolo, attore, musicista, cantante ed ex membro del protocollo presidenziale, lavoro, quest’ultimo, che ha lasciato quando a Omar Bongo, morto nel 2009, è succeduto il figlio Ali. Da qualche tempo, però, gli oligarchi hanno paura di mettersi in mostra: sembra, dice Abessolo, che il nuovo presidente sia «un peu anti-corruption"». Non si sa quanto "un peu", ma in attesa di capirlo meglio c’è stato chi ha addirittura comprato un’utilitaria.