Elasti, D Repubblica 28/9/2013, 28 settembre 2013
LE PAROLE CHE USIAMO RACCONTANO CHI SIAMO
Ho una grande considerazione delle parole, da quando ho memoria di me parlante. Le parole che usiamo, scegliamo, ripetiamo o evitiamo, raccontano chi siamo e cosa pensiamo. Ci sono parole che seducono, che offendono o che rivelano la nostra visione del mondo. Optare per una parola invece che per un suo sinonimo talvolta è una scelta politica e una presa di posizione.
La forza delle parole mi seduce e mi spaventa. E quando dico ai miei figli: «le parole sono le vostre armi più potenti », ci credo veramente, anche se loro non sembrano convinti e preferiscono dirimere le loro controversie a suon di cazzotti.
Temevo di esagerare, nella mia attenzione per le parole, perché, a guardare bene, si tratta di veicoli di sostanza e non di sostanza stessa.
Poi ho cominciato a frequentare la città di A, popolata da fricchettoni, radicali e marxisti, in Massachusetts, dove mio marito ha lavorato per un semestre e dove il cosiddetto politically correct è un modus vivendi, una cifra stilistica, un’ossessione, una fede, ai limiti dell’integralismo.
Lì lui, l’economista barese, avvezzo a un eloquio colorito e ammiccante, uso alla galanteria e dotato di un umorismo talvolta greve e primitivo, ha dovuto, prima di insegnare Microeconomia agli studenti americani, frequentare un corso su Harrassment & Discrimination Prevention, per la prevenzione di molestie e discriminazioni. Al grido di «Diversity matters!», la diversità conta, slogan del docente, nonché del cittadino, rispettabile, gli hanno spiegato che dire a una collega, o a un collega: «Il tuo nuovo taglio di capelli ti dona», è inopportuno perché il complimento potrebbe creare imbarazzo e configurarsi così come molestia. «Ti sei tagliata/o i capelli» è invece una formula neutra e quindi appropriata.
Per spiegare, in Economia, il concetto di perfetti sostituti, dichiarare: «Per gli Italiani, tradizionalmente divoratori di maccheroni, riso e pasta non sono perfetti sostituti» è considerato offensivo. «E se il docente che fa l’esempio è italiano?», ha ottusamente chiesto mio marito. Non importa, è comunque irrispettoso verso un popolo, è stata la risposta. È vietato usare stereotipi, di qualsiasi natura essi siano, è sconveniente invitare qualcuno - uomo o donna che sia - a bere una birra. («Potrebbe non gradire». «Ma se invece gradisce? Come faccio a saperlo prima di chiedere?». «Non saprei». «Ci sono persone timide che vanno un po’ incoraggiate, che dicono no per dire sì, che tentennano, che…». «Insistere è very inappropriate»). Certe parole pesano, quindi, meglio non usarle, sostengono lì.
Pensavo di essere attenta alle parole, fino a quando ho scoperto che definire qualcuno «Orientale», almeno nella città di A, è insultante. Il termine corretto è «Asiatico». «Non senti come suona razzista ‘Orientale’?».
Ero convinta di essere aperta e rispettosa nei confronti di ogni orientamento sessuale, poi sono stata invitata a una festa, nella città di A.
«Piacere, sono Joshua. Vorrei che mi definissi come she, terza persona singolare femminile», ha detto un biondino seduto su un divano, presentandosi. «Sono Leah e preferisco il pronome he, terza persona singolare maschile». Ho stretto la mano a Leah, che ha lunghi capelli rossi e grandi muscoli. Cominciavo a sviluppare una profonda idiosincrasia verso i pronomi, quando Bess mi ha teso la mano. «Ciao. Definiscimi pure con they, terza persona plurale maschile e femminile». Deve avermi visto confusa. «Non so scegliere tra she e he. They è neutro e, a differenza di it, indica persone e non cose. È il pronome giusto per me».
Non era uno scherzo. Era una scelta, consapevole ed estrema, la frontiera un po’ folle ed esasperata della parola che da forma si fa identità, da contenitore si fa sostanza, da strumento si fa insidia.
Le parole sono importanti, pesanti e potenti. Tuttavia, come tutto quel che importa e pesa e può, non vanno mai prese troppo sul serio.