Federico Fubini, la Repubblica, Affari & Finanza 30/9/2013, 30 settembre 2013
È BATTAGLIA SULLE QUOTE MA DA VIA NAZIONALE NON CI SARANNO REGALI
Quando la Banca d’Italia assunse la struttura azionaria che mantiene oggi, fuori dalle sue arcate in granito il mondo emergeva dalla Grande Depressione. John Maynard Keynes stava pubblicando la Teoria generale, il deficit pubblico dell’Italia mussoliniana era al 10% del Pil per lo sforzo militare in Etiopia, le banche erano state nazionalizzate nell’Iri, l’economia faticava a riprendersi da anni di sopravvalutazione della lira perseguita per motivi di prestigio. Per fortuna di noi contemporanei, quella era un’altra Italia. E ppure gli azionisti della Banca d’Italia erano gli stessi istituti che ora potrebbero vendere, o rivalutare, parte delle loro quote. All’epoca, con la legge del 1936 emanata all’uscita dell’Italia dal Gold Standard, le banche versarono 300 milioni di lire come capitale dell’Istituto. Se si calcola l’inflazione cumulata da allora e si trasla quel capitale ai prezzi attuali, oggi Bankitalia varrebbe un miliardo di euro. È molto meno dei 22,1 miliardi di euro impliciti nella valutazione delle proprie quote da parte di uno degli azionisti, Carige. Ed è una frazione del patrimonio netto della banca (23,5 miliardi), che include il capitale e le riserve frutto dell’attività di base di una banca centrale: il cosiddetto “signoraggio”, il potere di creare moneta e immetterla in circolazione prestandola agli istituti di credito contro garanzie e in cambio di un interesse. Fino a ieri queste erano poco più che questioni contabili, territorio
di caccia di pochi esperti. È probabilmente un segno dei tempi il fatto che siano entrati nella conversazione politica. Renato Brunetta, un esponente del centro-destra, propone di ridurre il deficit rivalutando le quote di Via Nazionale in mano alle banche e tassando le plusvalenze al 16%. Secondo Brunetta, l’incasso per l’erario sarebbe del 4% e permetterebbe di compensare per esempio il mancato aumento dell’Iva. Ancora una volta, ciò implicherebbe una rivalutazione del capitale di Banca d’Italia dai 300 milioni di lire del 1936 a 25 miliardi di euro oggi. Ma è davvero così? Il modo in cui le banche italiane iscrivono a bilancio le loro quote in Via Nazionale non aiuta. Intesa Sanpaolo e Unicredit, che insieme controllano il 58% del capitale, valutano le loro partecipazioni praticamente in base a un aggiustamento all’inflazione sul capitale versato nel ’36 dalle loro progenitrici Banca Commerciale e Credito Italiano. Per loro, Bankitalia non vale più di un miliardo e mezzo. E in teoria per gli istituti di credito quella valutazione non fa poi molta differenza: quelle quote da allora sono rimaste inerti e di fatto non sono scambiabili sul mercato proprio perché il loro valore non è chiaro. Ma forse è destino – e magari non un caso - che attorno a quel palazzo bianco in Via Nazionale i riassetti si facciano sempre in tempi di depressione. Oggi che il prodotto lordo è caduto dell’8,9% dal 2008 e i crediti deteriorati delle banche sono di (almeno) 250 miliardi, quelle vecchie quote non sembrano più tanto irrilevanti neanche alle banche. Nelle tasse prodotte dalla rivalutazione qualche politico può vedere una soluzione, precaria, ai problemi di finanza pubblica. Qualche banchiere invece può vedervi un modo per rafforzare il capitale del proprio gruppo, ora che i bilanci delle imprese di credito stanno per passare al setaccio prima la vigilanza del sistema passi alla Bce nel 2014. Oggi questo non è possibile. Poiché non esiste un valore preciso e accettato delle quote in Bankitalia, queste non posso essere vendute. E poiché non possono essere vendute, non possono neppure entrare a far parte del tipo di capitale richiesto per ogni banca dagli organi di vigilanza: le regole impongono infatti che quel capitale possa essere venduto e trasformato in liquidità in tempi molto rapidi. È il cosiddetto “Core Tier 1”: in base agli accordi internazionali (la cosiddetta Basilea 3) a termine questo capitale dev’essere almeno il 9% di tutte le attività in cui la banca ha investito. E se fossere scambiabili sul mercato, anche le quote di Via Nazionale entrerebbero a far parte del “Core Tier 1”. Visti i vincoli, sul deficit e sulle banche, facile dunque capire perché molti ora guardino a Bankitalia nella speranza che levi loro qualche castagna dal fuoco. Salvatore Rossi, il direttore generale, guida un’operazione che mira proprio a questo: misurare con certezza, e probabilmente rivalutare, il capitale dell’istituto. L’esercizio in realtà è appena partito, ma qualcosa inizia a essere già chiaro: non risolverà i problemi di capitale delle banche azioniste o quelli di deficit dello Stato. I vincoli internazionali e un po’ di realismo indicano che soluzioni contabili del genere a problemi così radicati in Italia restano fuori portata. Lo si capisce già dai primi segnali di fumo in arrivo da Palazzo Koch, sede dell’istituto. Bankitalia ha infatti aperto la partita sulle quote con una doppia mossa. In un’intervista al Sole 24 Ore, Salvatore Rossi ha dichiarato che il capitale della banca non può coincidere con il suo patrimonio netto di 23,5 miliardi. Il motivo: i proventi del signoraggio, la produzione di moneta, sono di natura così peculiare e indipendente che non possono costituire la base del capitale; su questo gli azionisti, dice Rossi, “non possono avere pretese”. C’è poi una seconda spia a segnalare che la rivalutazione delle quote sarà un esercizio delicato, non un colpo di bacchetta magica sui bilanci delle banche: è la lista dei consulenti nominati da Banca d’Italia per una valutazione preliminare. I loro profili rivelano già molto della cautela che circonda Palazzo Koch. C’è un esperto di finanza come il rettore della Bocconi Andrea Sironi, l’ex vicepresidente della Bce Lucas Papademos e Franco Gallo, presidente della Corte costituzionale sino a due settimane fa e specialista di diritto tributario. Un uomo per ciascuna delle tre preoccupazioni di Bankitalia. Il primo, Sironi, dovrà proporre un modello per la rivalutazione delle quote che vada aldilà della semplice stima dell’inflazione. Sironi probabilmente terrà conto anche del valore in prospettiva di quelle azioni, implicito anche nei flussi di dividendi prevedibili; una stima verosimile indica che il dividendo offerto da Bankitalia dovrebbe avvicinarsi alla cedola di un titolo di Stato quinquennale, anche se potrebbero esserci anni in cui l’istituto non remunera i suoi azionisti. Di certo, un incentivo del genere a detenere le quote potrebbe incoraggiare fondazioni, compagnie assicurative o fondi pensione a comprare qualche quota dalle banche. In questo modo, Intesa Sanpaolo e Unicredit potrebbero vendere e così scendere al di sotto di una quota congiunta che consegna loro più di metà del capitale della banca: un piccolo paradosso da risolvere, anche perché gli istituti di credito non hanno voce nella condotta di Bankitalia stessa. Ma, anche con quote vendibili e dunque incluse nel “Core Tier 1”, il rafforzamento del capitale non sarà comunque forte. Il compito di Franco Gallo sembra proprio di controllare questo aspetto: la revisione del capitale di Palazzo Koch non può diventare un modo surrettizio per estendere un aiuto di Stato alle banche azioniste. A maggior ragione adesso che Bruxelles rischia di imporre perdite per gli obbligazionisti subordinati in caso di sussidi pubblici alle banche stesse. Anche la chiamata di Papademos riflette l’intenzione di non scoprire il fianco all’accusa di aver infranto qualche regola europea. In particolare, le tasse derivate dalla rivalutazione delle quote non devono essere assimilabili a un finanziamento del deficit da parte della banca centrale: è vietato da Maastricht. La rivalutazione di Bankitalia entro l’anno dunque ci sarà, a patto che questo parlamento riesca ad approvare la legge necessaria. Ma che faccia miracoli per i suoi azionisti, o per lo Stato, è escluso in partenza.