Georges Simenon, la Repubblica 29/9/2013, 29 settembre 2013
SIMENON ON THE ROAD
Qualche anno fa, quando passavo la maggior parte del tempo nella campagna francese, venivano spesso dei giornalisti per intervistarmi e mio figlio, che aveva poco più di tre anni, aveva un fiuto straordinario nell’“individuarli”. «Mi metta la salopette, presto», correva a dire alla sua governante. «Ha la macchina fotografica». Poi si precipitava nel pollaio a prendere un tacchino grosso quasi quanto lui, sapendo già che era la foto tipica, la foto pittoresca che i giornalisti volevano da lui.
Mi ricordo anche di quell’epoca, più remota, in cui passavo la maggior parte del tempo a girare per il mondo. Arrivavo a Istanbul, a Bombay, a Tahiti, e invariabilmente, appena sbarcato, incontravo uno di quei personaggi deliziosi che sembrano avere come unica funzione quella di pilotare i francesi di passaggio. «Sì, la settimana passata avevamo Kessel… Otto giorni prima ho portato Montaron in quel piccolo bistrot dove siamo passati un attimo fa… Vedrà, hanno tutti firmato l’albo d’onore dell’albergo dove alloggia lei…».
Volenti o nolenti, seguivamo tutti la guida, uno dopo l’altro. Ci mostravano la stessa cosa, ci facevano mangiare gli stessi piatti nazionali, ci presentavano le stesse donne. Insomma, il tacchino di mio figlio.
Ora è un po’ più di un anno che sono arrivato in America. E fin dall’inizio del mio soggiorno, France Soir ha pubblicato alcuni articoli in cui riassumevo le mie impressioni. Non ero il primo a raccontare la mia “scoperta dell’America”, e dopo di me lo hanno fatto altri: giornalisti, scrivani, conferenzieri hanno intrapreso lo stesso viaggio, hanno incontrato le stesse persone, mangiato alle stesse tavole degli stessi ristoranti.
Oggi quindi ho deciso di smettere di fornire le mie impressioni, pronunciare giudizi, elaborare idee più o meno perentorie sull’America o sugli americani. Non so se reagite come me. Ma ogni volta che leggo uno studio su un paese che non conosco, mi dico: «Tutto molto interessante. Ma com’è l’anticamera, la cucina, la sala da pranzo? Cosa mangia la gente a colazione? Che aspetto ha il tram che li conduce al lavoro?...». Forse è una cosa un po’ ingenua, ma il più delle volte mi mancano questi piccoli dettagli della vita di tutti i giorni per immaginarmi come vivono. Quanto guadagnano? Quanto pagano un chilo di patate o un bicchiere di birra? Ora, dopo un anno di vita negli Stati Uniti e in Canada, ho avuto l’occasione di fare, in auto e a piccole tappe, la traversata degli Stati Uniti da nord a sud. Tremila miglia circa, ossia più di cinquemila chilometri. Partendo, su in alto, dal paese delle foche, dal Maine dove le campagne sono ricoperte di neve cinque mesi all’anno, e arrivando in una Florida quasi tropicale, dove le palme di cocco ciondolano intorno a casa mia mentre scrivo queste righe, e dove magari nel giardino ci sono i serpenti a sonagli.
È un viaggio banalissimo, che ho fatto così. E tuttavia è questo che vorrei raccontare, giorno per giorno, senza letteratura, con grande semplicità. Per la prima volta in vita mia mi sono anche imposto di prendere degli appunti, compreso il prezzo della benzina, di una colazione o di una camera. E tanto peggio se ci sono dettagli strambi! Sono quelli che io avrei voluto conoscere se non fossi venuto qui.
Vi presento anche i personaggi della scorribanda, per potervi parlare in modo più familiare. Due automobili. In una, una Oldsmobile a cambio automatico, mia moglie e l’istitutrice di mio figlio. Nell’altra, una più modesta Chevrolet, la mia segretaria, che è francocanadese, mio figlio, che adesso ha sette anni, e io. Le due macchine, naturalmente, sono state acquistate al mercato nero. Tutte le macchine o quasi, sia in Canada che negli Stati Uniti, si acquistano al mercato nero. Una buona vettura di seconda mano, come vengono chiamate qui le auto usate, vale teoricamente circa mille dollari. Il venditore vi fa una ricevuta per questa somma e gliene versate duemila. Le bustarelle non sono un’invenzione francese.
Ora, se ci tenete ad avere una macchina nuova e siete forniti al tempo stesso di astuzia, pazienza e sprezzo della forza pubblica, cosa che qui è più pericolosa che da noi, potete trovare da comprare una “priorità”, cioè un buono d’acquisto che viene distribuito agli ex combattenti, ai medici e a certi personaggi importanti. L’ottanta per cento circa di questi buoni di priorità viene rivenduto sottobanco. A mille dollari il buono in media, vi potete comprare la Ford nuova a duecentocinquantamila franchi e una macchina di gran marca a quattro-cinquecentomila. Dal momento che l’afflusso di nuove vetture è costantemente ritardato dagli scioperi, il prezzo delle “priorità” e delle auto di seconda mano sale di giorno in giorno.
Radio a bordo, beninteso. Qui non è immaginabile una casa senza radio, una macchina senza radio, un negozio senza radio. Ed è accesa tutto il giorno, dappertutto, a tutti i livelli e su tutte le strade. Partiamo il mattino presto: è la radio che ci saluta, con tono allegro. Suona più o meno così: «
Good morning…
Allora, spero che abbiate passato una buona nottata… Non vi dimenticate che sono le sette e trenta in punto e che avete diritto al vostro breakfast…
Sì, le sette e trenta, giusto in tempo, care signore, per preparare il caffè X che farà sparire il malumore mattutino di vostro marito. Non è un doposbornia, speriamo. Su, coraggio! L’aroma del caffè X arriverà fin nel vostro bagno, dove, se siete un uomo attento al vostro aspetto, vi state radendo in questo momento con la crema da barba Y… Sono le sette e trentadue minuti e non dovete perdere l’autobus delle otto e quindici… Avrete giusto il tempo di mandar giù il cereale Z… il più efficiente dei cereali, vitaminizzato appositamente per darvi il massimo di efficienza.
Forza! Forza! Un po’ di grinta… E per mettervi di buon umore, l’orchestra della stazione vi suonerà la popolare ballata Oh, What a Beautiful Morning…».
La cosa più incredibile è che poi vai nelle cucine, nei bagni… Ma sì, ecco il caffè X… la crema da barba Y… i cereali Z… Il signore che si affretta… Le nostre due macchine sono ferme al posto di frontiera di Calais, estremo nord degli Stati Uniti. Altre automobili trepidano davanti e dietro di noi, e in tutte c’è la radio che manda Oh What a Beautiful Morning, mentre passiamo dagli uffici luminosi e confortevoli dell’Immigrazione.
«Canadesi?». «No, francesi». «Ah! Parigi... ». Strizzata d’occhio rituale. Ci sono stati tutti, i vecchi nell’altra guerra, i giovani in quest’ultima. Lungo tutta la strada, alla parola Parigi ci sarà sempre la stessa aria di complicità gioiosa, perfino con i servitori neri della Virginia e della Georgia. Cosa che indispettisce la mia segretaria canadese, vicina troppo vicina perché gli americani non la trattino da parente povera. Quanti funzionari ho visto interrompersi mentre compilavano i loro moduli per tirare fuori dal portafogli la loro foto ai piedi dell’Arco di Trionfo o davanti al castello di Versailles e porgermela con orgoglio! In marcia!
(Traduzione di Fabio Galimberti)