Paolo Mieli, Corriere della Sera 30/9/2013, 30 settembre 2013
ANNIBALE, GUERRIERO PERFETTO MA EROE DELLE CAUSE PERSE
Polibio ne lodò esplicitamente «il modo di esercitare il comando, il valore e la forza sul campo». Napoleone Bonaparte ne esaltò la grandezza e lo collocò sullo stesso piano di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sigmund Freud, fin da giovane, ne scrisse con ammirazione, idealizzandolo come un «semita» che aveva avuto il coraggio di sfidare Roma. Nel 1934, il presidente turco Mustafa Kemal Ataturk gli dedicò un panegirico a Libissa, luogo in cui 2117 anni prima il comandante cartaginese si era dato la morte con il veleno per non essere catturato dai romani. Panegirico che doveva suonare a monito nei confronti di Benito Mussolini, il quale si proponeva come restauratore dei fasti di quell’antica Roma che, pur dopo essere stata da lui umiliata, alla fine era riuscita a sconfiggere il generale africano. In anni recenti gli afroamericani lo hanno considerato il grande eroe nero dell’antichità (anche se probabilmente non era di pelle scura). Adesso, in un libro che sta per essere pubblicato da Laterza, L’arte del comando (nella convincente traduzione di Giuliana Scudder), Barry Strauss sostiene che, per certi versi, il grande generale cartaginese superò Alessandro e Cesare. «Probabilmente», scrive, «fu Annibale il più grande comandante, sia in combattimento sia sul campo... Con la battaglia di Canne realizzò uno degli esempi di accerchiamento più eleganti e distruttivi che gli annali della storia militare ricordino». Si può dire che fu «l’eroe della cause perdute e delle battaglie perfette».
Come Alessandro con Filippo II, Annibale aveva appreso l’arte militare dal padre: Amilcare Barca. Quando attaccò Roma aveva 29 anni e da 20 non aveva più messo piede a Cartagine. A fianco del padre, in Spagna, aveva fatto sua l’«abilità del sorprendere». Quando varcò le Alpi, portando con sé gli elefanti, «lasciò il nemico a bocca aperta». Accerchiò i romani «con una serie di stratagemmi inauditi»: riuscì «a forzare le porte di una città inespugnabile»; caricò il nemico con la cavalleria da un nascondiglio alle sue spalle; in una notte riuscì a portare in salvo il suo esercito sotto il naso dei romani. Non ebbe remore di carattere umanitario: la prima cosa che fece, quando nel 218 a.C. giunse in Italia, fu massacrare gli abitanti di Torino per spezzare la resistenza nell’area circostante; e quando 15 anni dopo, nel 203 a.C., lasciò l’Italia, uccise gli italici che si rifiutavano di seguirlo. Ugualmente crudeli, del resto, furono gli altri due condottieri: Alessandro rase al suolo Persepoli con una dose non necessaria di sadismo; Cesare, scrive Plutarco, sterminò in Gallia un milione di persone (e ne ridusse in schiavitù altrettante).
Roma controllava i mari e i porti vitali della Sicilia e della Sardegna. Così Annibale, non potendo cercare rifornimento nei porti delle due isole, fu costretto a compiere un viaggio di 1.600 chilometri, dalla Spagna meridionale all’Italia settentrionale. A quei tempi Roma aveva a disposizione un esercito potenziale di 760 mila uomini, Annibale di 60 mila, che si sarebbero ridotti a 26 mila dopo l’attraversamento delle Alpi. La sua arma principale, oltre a quella di colpire il nemico a sorpresa, era (avrebbe dovuto essere) quella di provocare defezioni nel campo degli alleati di Roma. Ci riuscì davvero e fino in fondo solo con i celti. In ogni caso comunicava agli italici di essere sulle loro terre non come conquistatore, ma come liberatore e, dopo ogni vittoria, riduceva in schiavitù i romani, ma liberava tutti i prigionieri italici.
Annibale, a detta di Strauss, «impersonò la figura del vendicatore e del liberatore e trovò la via per avvicinarsi agli dei». A Cartagine promise di restituire l’onore perduto a causa dell’antica sconfitta subita da Roma nella Prima guerra punica; agli italici disse che avrebbe loro restituito «la libertà dalla dominazione romana» (anche se Cartagine, diffidente nei confronti della famiglia Barca, nel momento decisivo gli lesinò gli aiuti). Affermò, Annibale, di essere protetto dal dio cartaginese Melqart, da Ercole e si descrisse come un eroe tratto dalla mitologia celtica. Ma, precisa Strauss, «a differenza di Alessandro non dichiarò mai di essere un dio, e si limitò ad affermare di essere sotto la protezione divina». Per questo «il fascino che Annibale esercita sui diseredati ha radici solide». Nessuno stratega «è riuscito a realizzare una invasione così rischiosa come la marcia di Annibale attraverso i Pirenei, il Reno e le Alpi fino in Italia; nessun comandante ha ottenuto una vittoria tattica così definitiva come quella di Annibale a Canne... Nessuno ha saputo riorganizzare con tanta fermezza i popoli invasi come lui quando entrò in Italia al grido "l’Italia agli Italici"». Dopo «aver sfidato un impero arrogante e averlo scosso fino alle radici, perse tutto; ma conservò la propria dignità; nella sconfitta reinventò se stesso come amministratore, ricominciò la lotta contro Roma in Oriente, e rifiutò l’umiliazione di una marcia trionfale del nemico… Morì da sconfitto, ma non piegato».
Tito Livio definì il conflitto che oppose Annibale a Roma (218-201 a.C.) «la più memorabile di tutte le guerre che vennero mai combattute». «A mio parere», ha scritto Werner Huss in Cartagine (Il Mulino), «i romani non potevano accampare nessuna valida ragione di diritto internazionale quando nel 218 a.C. entrarono nella guerra che doveva decidere dell’egemonia nell’area del Mediterraneo occidentale». Questo semplice fatto «fu però messo in ombra dalle affermazioni dei politici e storici romani, che da un lato ritennero politicamente inopportuno dire la nuda verità, dall’altro erano intimamente convinti che ogni guerra combattuta da Roma fosse una "guerra legittima"». Se i romani, prima dello scoppio della guerra, si videro costretti ad agire in base a un pretesto giuridico — il presunto obbligo di alleanza nei confronti della città iberica di Sagunto, cuneo romano nella Spagna cartaginese, espugnata da Annibale nel 219 a.C. — questo, secondo Huss, «non solo dimostra che erano consapevoli della illegittimità della loro azione, ma lascia anche pensare che si rendessero pienamente conto della grande importanza della loro decisione».
Se poi dobbiamo accettare la massima napoleonica secondo cui «in guerra non sono gli uomini ma l’uomo che conta», ha scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Bur), «il fatto più significativo è che Alessandro e Cesare ebbero il terreno spianato dalla debolezza e dall’ignoranza dei comandanti che li contrastarono». Annibale, no. Solo Annibale («al pari di Scipione») combatté regolarmente contro generali esperti. Però, prosegue Liddell Hart, «le sue tre vittorie decisive — Trebbia, Trasimeno e Canne — vennero riportate su generali non solo ostinati e precipitosi, ma anche scioccamente refrattari a qualsiasi tattica che contasse sull’astuzia piuttosto che sul puro e semplice impiego della forza bruta». Annibale ne era consapevole, tant’è che alla vigilia della battaglia della Trebbia, esaltando l’attitudine a individuare le opportunità e la prontezza nel coglierle, avvertì i suoi: «Avete a che fare con un nemico ignaro di queste arti della guerra». Barry Strauss lo descrive invece come un generale senza scrupoli che «con una élite esperta e un piccolo esercito riesce a mettere fuori combattimento un gigante d’argilla»: tipo Hernán Cortés, che nel 1519 con appena seicento uomini affrontò gli aztechi e nel 1521 avrebbe conquistato l’intero Messico.
Già Pirro, re dell’Epiro, nel 280 a.C. aveva invaso l’Italia meridionale e aveva quasi piegato Roma. Generale dotato dello stesso carisma di Annibale, scrive Strauss, «anche Pirro aveva un esercito piccolo ma esperto, completo di cavalleria e di elefanti... Al contrario di Annibale, aveva anche numerosi alleati italici». Vinse due importanti battaglie campali contro Roma, ma subì perdite talmente gravi che le vittorie si trasformarono in sconfitte: Roma rifiutò di arrendersi, riguadagnò gli alleati che fornirono nuove truppe e ottenne l’appoggio di Cartagine, timorosa che Pirro potesse invadere la Sicilia. Così, cinque anni dopo, nel 275 a.C., il re dell’Epiro fu costretto a tornarsene a casa a mani vuote.
Annibale, passate le Alpi, dove, come si è detto, aveva perso oltre la metà del suo esercito, anziché fermarsi a riprendere fiato, come tutti si aspettavano, inflisse due terribili sconfitte ai romani: sul Ticino, dove umiliò Scipione, padre di quello che sarebbe divenuto l’Africano, e sulla Trebbia, dove circa 28 mila uomini (due terzi dell’esercito di Roma) furono uccisi o presi prigionieri. Qui Tito Sempronio Longo non ebbe il coraggio di dire a Roma la verità circa l’accaduto e raccontò che una tempesta «aveva ostacolato la vittoria». Nel 217 a.C., l’anno successivo a quello del passaggio delle Alpi, Annibale attraversò gli Appennini e si impantanò nelle paludi dell’Arno, un luogo acquitrinoso, che causò notevoli perdite alle armate cartaginesi. Ma anche stavolta non si perse d’animo e inflisse ai romani un nuovo scacco sulle rive del Trasimeno. Tra uccisi, feriti o catturati, altri 30 mila romani furono fatti fuori, mentre l’esercito di Annibale subì la perdita di 1.500 uomini, prevalentemente celti. Qui si pone per la prima volta la questione di Maarbale, il valoroso generale cartaginese che, secondo gli approfonditi studi di Dexter Hoyos, già allora avrebbe fatto pressione per attaccare immediatamente Roma, che dista appena 137 chilometri dal luogo della battaglia e che in quel momento era difesa da non più di 10 mila militi. Ma Annibale sceglie di aggirare la città nemica per dirigersi verso sud, in cerca di nuovi alleati e di una ricompensa per le sue truppe. E gli storici sono pressoché unanimi nel giudicarla una buona scelta.
Roma a questo punto corre ai ripari affidandosi a un dittatore: Quinto Fabio Massimo, grande esperto nell’arte di temporeggiare, non attaccare frontalmente l’avversario (limitandosi a infastidirlo con azioni di guerriglia). Il suo piano, secondo Plutarco, era di «mandare piuttosto soccorso agli alleati, perché, conservando essi le loro città, logorassero le forze di Annibale come fiamma che brucia alimentata da scarsa e leggera materia». Si discute ancora, ha scritto Fabio Mini in Eroi della guerra. Storie di uomini d’arme e di valore (Il Mulino), se il Temporeggiatore avesse trovato «una tattica asimmetrica» o fosse soltanto «un inetto che si accontentava di sopravvivere». Di certo «era più attento al clima politico del Senato che alla ricerca dello scontro con Annibale, il quale poté continuare a muoversi con relativa facilità». Annibale, ha proseguito Fabio Mini, «comprese che la strategia indiretta del sollevamento locale contro Roma non dava i frutti sperati e i romani mantennero il controllo del territorio». Ma «anch’essi erano vicini al collasso psicologico». Tra l’altro, scrive Strauss, la cultura romana amava l’offensiva e disprezzava la strategia difensiva, i soldati scalpitavano per la passività del loro comandante e il popolo di Roma gli diede lo spregiativo nomignolo di «servo di Annibale». A compensare, parzialmente, questa inattività romana, arriva la notizia della splendida vittoria navale alla foce dell’Ebro e di altre prodezze terrestri di un altro Scipione a danno di Asdrubale, fratello di Annibale, da lui lasciato a presidio della Spagna.
A fine 217 a.C. il Temporeggiatore lascia l’incarico, viene sostituito da due consoli e il 2 agosto dell’anno successivo Roma perderà in un giorno tante persone quante il Giappone oltre duemila anni dopo a Hiroshima. Stiamo parlando della battaglia di Canne, dove i romani, pur disponendo del doppio di uomini dei loro nemici, furono travolti da Annibale, che ne uccise 48 mila e ne fece prigionieri altri 20 mila (il 75 per cento del loro esercito). I nuovi consoli, Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo, avevano deciso di farla finita con le tattiche di Quinto Fabio Massimo e di cercare, perciò, lo scontro. Comandavano, però, a giorni alterni: Paolo, il più prudente, decise il 1° agosto di non rischiare; Varrone, il giorno successivo, attaccò e per Roma fu la fine. O quasi. Annibale accerchiò e travolse i romani con un modulo di battaglia che sarebbe stato studiato nei secoli: nel 1905 la strategia cartaginese ispirò il piano del generale tedesco Alfred Graf von Schlieffen, ma nel 1914 l’esercito della Germania imperiale non riuscì ad applicarlo e a ripetere l’impresa a danno dei francesi. Per Roma l’agosto del 216 a.C. a Canne fu un ricordo terribile: «L’elenco dei morti era un "chi è" della élite romana: vi appartenevano 80 senatori o persone eleggibili come membri del Senato, 29 tribuni militari, numerosi ex consoli e il console Paolo, uno dei comandanti dell’esercito romano», nota Strauss. Sopravvisse Publio Cornelio Scipione, che trovò rifugio a Canosa. E qui torna in scena per la seconda volta Maarbale, che suggerisce ad Annibale di puntare dritto su Roma. Nel giro di cinque giorni, gli diceva, avrebbe potuto cenare sul Campidoglio. Si offrì di andare avanti lui e di affrontare la parte più impegnativa della battaglia. Ma Annibale gli rispose di no. Al che Maarbale, secondo Tito Livio, gli avrebbe detto: «Evidentemente gli dei non hanno concesso tutti i doni a uno stesso uomo: tu, Annibale, sai vincere, ma non sai approfittare della vittoria». Il grande condottiero cartaginese, però, non si lasciò persuadere. Pretendeva, prima di impegnarsi nello scontro decisivo, di avere una migliore disposizione sul campo delle alleanze. A questo punto Strauss si domanda se Maarbale avesse ragione e, a differenza di quasi tutti gli storici che si sono occupati delle guerre puniche, conclude che difficilmente, con la strategia d’attacco suggeritagli dal proprio braccio destro, il comandante cartaginese avrebbe costretto Roma alla resa. Forse avrebbe dovuto attaccare Canosa, per dare un ulteriore colpo all’esercito nemico in rotta e togliere di mezzo l’uomo che lo avrebbe sconfitto, il giovane Scipione (questo però Annibale non lo poteva immaginare).
Dopo Canne, in ogni caso, la maggior parte dell’Italia meridionale (ma non di quella centrale) passò con Annibale e così anche Filippo V di Macedonia. Il condottiero africano promise che non avrebbe arruolato i loro uomini: gli era sufficiente che non fossero più a disposizione di Roma. Ma, in un acuto saggio dedicato a questa vicenda, Siegmund Ginzberg ha fatto notare come fosse di fatto impossibile mandare in frantumi l’intelaiatura di rapporti creata dai romani. E ha condiviso la tesi centrale del celebre libro di Robert O’Connell, The Ghost of Cannae (Random House): «Annibale analizzava la struttura delle alleanze di Roma come se studiasse una radiografia ai raggi X, vedeva le strutture ossee; invece avrebbe avuto bisogno di una risonanza magnetica, che gli mostrasse il tessuto connettivo fatto dalle relazioni personali che Roma era riuscita a stabilire tra i membri del proprio gruppo dirigente e quelli dei gruppi dirigenti degli alleati, nonché i rapporti di clientela... Era proprio quello l’elemento che teneva insieme l’alleanza romana; Annibale non riuscì mai a cogliere fino in fondo quanto fosse forte, quindi non riuscì a spezzarla del tutto, anche dopo aver vinto una battaglia dietro l’altra».
Ma torniamo al dopo Canne. La città più importante che passa dalla sua parte è Capua e lì stabilisce il suo quartier generale. Annibale, ricostruisce poi Fabio Mini, «girovaga per l’Italia meridionale. Sosta, ozia, attacca, si lascia invischiare nelle meschinità locali. Dalla Campania organizza una spedizione, attraversa il Sannio e punta su Roma. Arriva a tre chilometri dalla città e si ferma. Non ha le forze per distruggerla, né per piegarla; combattendo sotto le sue mura costituirebbe un obiettivo per tutte le legioni romane e gli alleati, sa di non avere il controllo delle linee di rifornimento e non è sicuro del supporto di Cartagine in mano ai politicanti». Preferisce tornare in Apulia, sconfigge i romani a Oderno e a Locri, ma quelli riescono a riprendere il controllo del Sannio e della Campania.
In merito a tali circostanze, Barry Strauss rende esplicito omaggio al fondamentale volume di Michael Fronda, Between Rome and Carthage. Southern Italy during the Second Punic War (Cambridge University Press), nel quale è ben argomentata la tesi secondo cui, avendo Roma un numero pressoché illimitato di soldati (Polibio ne calcolava circa 800 mila, comprendendo quelli «prestati» dalle città italiche), l’unica iniziativa di Annibale che avesse senso strategico era quella di sottrarle il maggior numero possibile di alleati e con questi alleati la metà degli uomini in armi su cui avrebbe potuto contare. Cioè quello che provò a fare. Inviando suo fratello Magone a Cartagine, nel 215 a.C., con un cesto di anelli d’oro sottratti ai nobili romani uccisi o fatti prigionieri a Canne, per chiedere un aiuto che il Senato della città concesse malvolentieri. Roma a questo punto riuscì con un assedio di due anni, dal 213 al 211 a.C., a riconquistare Siracusa, che era passata con Cartagine (nella battaglia fu ucciso il grande matematico Archimede, il quale si era messo a disposizione della difesa della città) e la Sardegna. Poi attaccò Nuova Cartagine in Spagna. E sfondò nella penisola iberica. Annibale, scrive Strauss, non aveva tenuto conto di una fondamentale legge di guerra: se invadete un Paese, non permettete che, per rivalsa, questo invada il vostro.
Qui entra in scena Publio Cornelio Scipione, che sarà detto l’Africano. È nato nel 235, ha 12 anni meno di Annibale, contro il quale ha combattuto, diciassettenne, a fianco del proprio padre nella battaglia del Ticino: padre che sarà ferito e che lui stesso trarrà in salvo con un’azione davvero eroica. Mentre Annibale è in Italia, travolge i romani e conosce successo dopo successo, Scipione si fa nominare proconsole per la Spagna e riesce a riconquistare la penisola iberica. Forte di questa impresa, si propone di attaccare Cartagine, costringendo in questo modo Annibale a tornare in Africa per difendere la sua città. Ma il Senato lo osteggia, Quinto Fabio ironizza sulla sua giovane età e, scrive Fabio Mini, «allude al fatto che si tratti di una sua manovra per avere gloria lontano da dove è il pericolo, cioè Roma». Quinto Fabio, secondo Mini, attribuisce a Scipione «un vizio comune a quel tempo come oggi, un vizio di cui lui stesso era esempio vivente»: le armate «sono reclutate per la protezione della città, non per i consoli che, come sovrani, le portino per il mondo ove loro aggrada per motivi di vanità personale». La risposta di Scipione è caustica: «Affronto il nemico che voi mi assegnate, ma voglio essere io a trascinarlo dietro a me piuttosto che sia lui a trattenermi... Chi porta il pericolo su di un altro ha più spirito di chi deve respingerlo, il terrore si moltiplica con la sorpresa e l’inaspettato… purché non sorgano impedimenti, qui presto sentirete che in Africa è scoppiata una guerra e che Annibale sta lasciando l’Italia». Il Senato, «in un costume sopravvissuto fino ad oggi in molte parti del mondo» (Mini), se la cava con un marchingegno, nominando Scipione console in Sicilia, così che sia lui nella sua autonomia a prendersi la responsabilità di attaccare Cartagine. E Scipione se la prende.
Scacciati i cartaginesi dalla Spagna, sconfitto Asdrubale nella battaglia di Becula (208 a.C.), si fa eleggere console (205 a.C.), mette insieme un suo esercito personale il cui nerbo è composto da sopravvissuti di Canne e sbarca in Africa (204 a.C.). Qui si allea con Massinissa e riesce a spezzare l’alleanza di Cartagine con la Numidia. I cartaginesi provano a trattare la pace con Roma, poi inviano (inutilmente) Magone in Italia a soccorrere Annibale, infine nel 203 a.C. richiamano lo stesso Annibale in patria. Il comandate non rientra in città, si accampa anzi a 120 chilometri, nei pressi del porto di Adrumeto. E mentre si prepara allo scontro decisivo, capisce di essere spacciato. Strauss ipotizza che se, come lo esortava a fare il Senato di Cartagine, avesse attaccato prima, quando ancora Massinissa non si era ricongiunto a Scipione, forse... Ma poi lui stesso ammette che Scipione non avrebbe accettato il confronto militare fino a quando non si fosse congiunto alla cavalleria dei numidi. Perciò a quel punto non c’era via d’uscita.
Prima della battaglia di Zama (202 a.C.), Annibale a sorpresa chiede di incontrare Scipione. «I resoconti di questo colloquio», scrive Liddell Hart, «devono essere considerati importanti solo nelle loro linee generali e pertanto — anche a causa delle lievi divergenze tra le varie fonti — sarebbe più conveniente parafrasarli, ad eccezione di alcune delle frasi più pregnanti». Il tema principale su cui si sofferma Annibale è «l’incostanza della fortuna». Annibale sa che perderà e così si rivolge al suo giovane interlocutore: «Quello che io fui al Trasimeno e a Canne, quello sei tu oggi... Adesso sono qui in Africa, ridotto a dover discutere con te, che sei romano, della salvezza mia e di quella dei cartaginesi; proprio in considerazione di questo io ti consiglio di non essere superbo». Dopodiché elenca condizioni di pace a tal punto favorevoli a Cartagine che per Scipione è facile respingerle. Perché allora aveva voluto quell’incontro? Secondo Strauss, Annibale aveva intuito che anche Scipione aveva problemi con il suo governo e quello era un modo di suggerirgli che «c’era tra loro molto in comune, che erano avversari non nemici e potevano essere utili l’uno all’altro, comunque fossero andate le cose... Il perdente poteva ottenere clemenza e il vincitore avrebbe saputo di avere nel campo avverso un uomo che rispettava». Dopodiché Zama fu una Canne capovolta: i cartaginesi persero 20 mila uomini e altrettanti ne furono fatti prigionieri; i morti di Scipione furono 1.500. La sua vittoria fu schiacciante.
Ma Scipione, probabilmente anche a seguito del colloquio di cui si è detto, si oppose a che Annibale fosse portato a Roma in catene. Anzi, consentì che mantenesse ruoli pubblici nella sua città. E qui accade qualcosa a cui Strauss dedica grande attenzione. Tornato al potere nel 196 a.C., Annibale ritenne che il compito più urgente fosse quello di riordinare le finanze dissestate. Ci provò e ci riuscì. Ma, nota Werner Huss, entrò in conflitto con il «ministro delle finanze», che apparteneva al partito aristocratico. Propose anche una riforma molto ardita, che ridimensionava il Consiglio dei Centoquattro, organo supremo della politica cartaginese, e fu a quel punto che i suoi nemici interni, «senza alcun ritegno», lo indicarono ai romani come se fosse tornato ad essere pericoloso.
In realtà stava solo diventando un uomo politico di grande peso. È quello che Barry Strauss definisce il «paradosso di Annibale»: nel momento stesso «in cui si spegnevano i suoi sogni di gloria militare, si svelava la sua capacità politica». «Quando aveva stabilito un rapporto con Scipione, aveva fatto probabilmente l’unica cosa che poteva fare per salvarsi dall’esilio e dalla morte... A quel punto cominciò a reinventarsi come statista e riformatore, facendo per Cartagine quel che Cesare avrebbe fatto per Roma, e anche di più». Ma, scrive Huss, i romani — nonostante Publio Cornelio Scipione Africano si battesse in sua difesa e gli desse fiducia — inviarono a Cartagine una missione per fare chiarezza su questa nuova situazione (anche se lo scopo ufficiale degli emissari era quello di dirimere una vertenza sui confini tra Cartagine e Massinissa). Ovvio, afferma Strauss, «dopo Annibale, Roma non si sarebbe più fidata davvero di Cartagine e avrebbe finito col vendicarsi di Canne in un modo tale da far sembrare quel massacro una lotta a cuscinate».
Annibale capì l’antifona e fuggì a Efeso, alla corte di Antioco. Era l’anno 195 a.C. e da quel momento avrebbe girovagato, ma non avrebbe mai più rimesso piede a Cartagine. Dopo la sua fuga, i romani gli diedero la caccia e nel 183 a.C., quando stava per essere catturato, Annibale si uccise, a Libissa nei pressi di Istanbul, il luogo in cui — come si è detto all’inizio — lo avrebbe celebrato Ataturk. Quanto a Cartagine, divenuta anche per merito di Annibale di nuovo fiorente e prospera, cinquant’anni dopo (146 a.C.) i romani, che non se ne fidavano, l’avrebbero rasa al suolo in maniera definitiva. E trascorsi cento anni, nel 46 a.C. Giulio Cesare l’avrebbe rifondata come colonia romana, popolata da abitanti che provenivano dall’Italia. Ma da quel momento per Cartagine fu tutta un’altra storia.
Secondo Strauss gran parte della responsabilità per il fallimento dell’impresa di Annibale ricade sul governo cartaginese, che nel 215 a.C. aveva rifiutato di inviargli i rinforzi richiesti. Ma anche lui, dopo la sconfitta di Asdrubale in Spagna nel 207 a.C., avrebbe dovuto capire che la sua avventura in Italia non aveva più alcuna possibilità di successo e non doveva restare lontano dall’Africa altri quattro anni. Nessuno come lui seppe tenere in pugno i propri soldati che, a differenza di quelli di Cesare e di Alessandro, mai si ammutinarono. Il suo principale difetto era che «non sapeva, al contrario di Cesare, immaginare il futuro». Poi, per paradossale che possa apparire, tutta la sua vita e in particolare la parte conclusiva dimostra che, a differenza di Alessandro, «fu un ottimo amministratore, ma non un buon conquistatore». I conquistatori, afferma Strauss, «continuano ad andare avanti finché loro e i loro uomini cadono esausti o morti; gli uomini di Stato sanno quando è il momento di fermarsi». Ma è difficile possedere entrambe le doti. Ha scritto Winston Churchill: «Quelli che sanno vincere una guerra, raramente sanno stabilire una buona pace, e quelli che hanno saputo fare una buona pace, non avrebbero mai vinto la guerra». Annibale avrebbe potuto essere l’unica eccezione nella storia.
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