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 2013  settembre 29 Domenica calendario

VI RACCONTO LA MIA FAMIGLIA E I BACI SAFFICI DELLA MAMMA


Formato famiglia: 1974, l’artista d’avanguardia Guido (Kim Rossi Stuart) e la moglie Serena (Micaela Ramazzotti), genitori di Dario e Paolo, 10 e 5 anni. Lui vorrebbe essere cattivo, ma la sua arte non è vita, mentre Serena fa della propria vita arte: Camargue, un gruppo di femministe, un bacio a Helke (Martina Gedeck), la libertà e altri disastri. Ma sono Anni felici, sottratti dal regista Daniele Luchetti al proprio album di famiglia, filtrati dalla finzione e dal 3 ottobre portati al cinema. Perché il privato è pubblico.
Dopo La nostra vita, la tua?
Non ci avevo pensato, ma è così: volevo tornare sul tema familiare, e avvicinarmi al cuore del problema. Il perché non lo so, non ho risposte, ma non faccio programmi: il successo non mi ha portato a Il portaborse 2, La scuola 2. Ma ricordo quanto mi ha detto Abraham Yehoshua: “Per noi israeliani il tema centrale è la terra, per gli americani l’ambizione, per voi italiani la famiglia: continua a esplorarla”.
I panni sporchi non si lavano in casa?
La mia risposta è da artista, non ho voluto obbedire a leggi d’onestà intime, ma a quelle dello spettacolo. Una cosa è il nostro vissuto, un’altra il linguaggio condiviso con lo spettatore: una cronaca onesta, senza bugie e invenzioni non ci avrebbe fatto i conti.
Forse non per tua madre, ma quel bacio saffico può essere un problema?
Se lei abbia baciato o meno, se io abbia ribaltato di sesso mio padre, il problema non è quello, ma un altro: tuo figlio mette in piazza le vostre storie, e ne fa un gioco di specchi. “Io scrivo come se non avessi né padre né madre”, mi ha detto una scrittrice, e concordo: bisogna essere crudeli. Il film è un atto d’amore per i miei genitori che testavano la propria libertà, ma è crudele, perché “questo sono io, e questi siete voi”: fa scandalo che un figlio si prenda questa libertà.
Sicuro che tu sei quel figlio Dario e non piuttosto il padre, Guido?
Sono anche quel padre, quella madre e persino Helke, mi identifico in tutti i personaggi, è il gioco di specchi.
Di chi ti senti il portaborse?
Ho rinunciato presto. Al mio secondo film, La settimana della sfinge, ho capito che non potevo essere qualcun altro: “Pecca di fellinismo”, mi disse un critico, e ne fui talmente ferito che da lì in poi evitai le citazioni e i riferimenti. Certo, avrei voluto essere Fellini, Welles e Hitchcock, ma sono fantasie sessuali.
Senza fantasie, ti confronti con qualche collega?
Virzì, Sorrentino, Piccolo, la Archibugi, Francesca Comencini e Federica Marciano: abbiamo un dialogo aperto, sul nostro cinema e sul nostro pubblico. Non siamo isolati, ma solidali, perché parliamo la stessa lingua.
Nessuna invidia?
Come per il compagno di classe che ha la fidanzata più appariscente, l’invidia c’è, ma anche ammirazione, affetto e rabbia. C’è tutto, ma non ci sono migliori o peggiori degli altri.
Guido, nel tuo film, si scaglia contro l’arte borghese.
E io lo prendo in giro: è un equivoco, un falso problema, perché l’arte è sempre il riflesso della società, non la può modificare. Del resto, oggi siamo più borghesi di 40 anni fa.
Tuo “padre” prende a pugni un critico: hai mai avuto la tentazione?
Prima di fare il regista usavo la critica per orientarmi, capire quel che non capivo, ma allora il cinema era più difficile: Ferreri, Tarkovskij dialogavano con la critica e lo spettatore era obbligato a triangolare. Oggi manca quella necessità: il pubblico è alfabetizzato, Moretti, Sorrentino, Garrone, Audiard gli parlano direttamente. Forse l’unico rimasto è Lars Von Trier.
Anziché andare a Venezia, hai preferito Toronto: perché?
Successo o insuccesso, fa parte del gioco, ho le spalle larghe e lo posso gestire, ma volevo vivere il film come una festa, e non una questione di vita o morte: a Venezia per gli italiani c’è il plotone d’esecuzione . Ieri sera ho parlato con un giurato della Mostra, e mi ha detto di una selezione con stupri, incesti, uccisioni e dolore, toni da film d’arte. Lo chiedo onestamente, il mio Anni felici che c’entrava?