Federico Varese, La Stampa 29/9/2013, 29 settembre 2013
A CIUDAD JUAREZ DOVE SI MUORE SENZA UN PERCHÉ
Una leggera brezza rinfresca l’aria serale a Ciudad Juarez. Dopo le piogge torrenziali di qualche settimana fa, il bel tempo ha riportato nelle strade gli abitanti di questa città martoriata, che ha il triste primato di essere la più pericolosa del pianeta, con picchi di tremila omicidi l’anno.
Qui i narcos si contendono i corridoi per far entrare droga e immigrati illegali in Texas, e qui sono stati trovati i corpi stuprati e mutilati di più di seicento operaie, mentre tremila donne risultano disperse dal 1993. Oggi però Ciudad Juarez è vestita a festa e nella piazza principale decine di anziani si godono il sole. Il Kentucky Club sembra tornato ai fasti degli anni cinquanta, quando era il locale preferito di Marilyn Monroe e Frank Sinatra.
Ma la follia degli uomini non si accorda con la mitezza della natura: al numero 4610 di El Porvenir, a pochi chilometri da dove mi trovo, due uomini incappucciati scendono da una macchina armati di AK-47. Nel cortile della casa una trentina di persone sta celebrando la vittoria in un torneo di baseball. Il trofeo è appoggiato su un tavolo di plastica, sotto un albero che ha visto tempi migliori. Intorno vi è la squadra al completo, oltre all’allenatore, i genitori, le sorelle, e molti bambini. Mentre si alzano i calici per l’ennesimo brindisi, il commando apre il fuoco. Bastano due minuti per uccidere dieci persone, la maggior parte ragazzi tra i quindici e i vent’anni: Antonio, Ricardo, Jesús, Luis, José, Julio, Martín, Maria, Perla (di sei anni) e Edgar, lo stesso nome di mio figlio. «Non capiamo cosa sia successo, perché sia successo, erano persone perbene, non avevano mai fatto del male a nessuno» dichiara la sorella di una delle vittime a «El Diario», il quotidiano locale che a sua volta ha visto morire ammazzati quattro giornalisti negli ultimi anni.
Il giorno dopo abbondano le teorie più disparate su questa strage che è passata quasi inosservata sulla stampa internazionale. Forse il movente va ricercato nelle scommesse clandestine; o forse i giovani che furono allontanati dal campo durante un match del luglio scorso si sono voluti vendicare, o - spiegazione che non manca mai – si è trattato di un regolamento di conti tra i due cartelli che si contendono la città, Sinaloa e La Linea. Ugualmente possibile, un errore del navigatore ha fatto fermare la macchina all’indirizzo sbagliato. Tra i miei interlocutori l’unica certezza è che la polizia non risolverà mai il caso.
E pensare che la mia domenica a Ciudad Juarez era iniziata nel migliore dei modi. Alle dieci avevo incontrato Gustavo Ruiz, un animatore culturale di trentadue anni. Sofisticato, cosmopolita e colto, Gustavo è tornato a vivere a Juarez da Città del Messico nel 2009, all’apice della «guerra» tra i due cartelli, per stare vicino alla sua famiglia e cercare di organizzare una rete civica di reazione alla violenza. «All’epoca, solo i giovani sotto i venticinque anni non erano rassegnati e impauriti», dice. Oggi Gustavo lavora per diverse Ong, ha un contratto con il museo di antropologia e ha fondato una comune di artisti. Ci incontriamo al mercato della città, un tempo la meta di migliaia di turisti e oggi quasi deserto («solo il 15% dei negozi sono aperti»). In un ristorante sulla piazza partecipo alla riunione di un gruppo di appassionati di storia locale che si riunisce tutte le domeniche per recuperare la memoria della città attraverso vecchie foto e oggetti di famiglia. Si scambiano ricordi sui palazzi storici di Juarez, mostrano cartoline sbiadite protette da buste di plastica. Dopo una lunga colazione, il gruppo va a visitare un angolo particolarmente significativo di Juarez. Oggi è la volta di una chiesa gravemente danneggiata dalle piogge torrenziali. Sono apolitici ma agguerriti. Per un attimo penso che questi signori si rifugiano nel passato per evitare di guardare in faccia gli orrori di oggi. Ma presto mi ricredo: fare qualunque cosa in questa città è una sfida contro l’apatia, contro la tentazione di chiudersi in se stessi. Uscire per strada, occupare spazi comuni come il bar in una piazza semideserta, documentare il proprio passato e protestare contro il degrado dei monumenti sono atti concreti di ribellione. Immagino che sia altrettanto rischioso collezionare francobolli a Kabul.
Io però non mi unisco al loro viaggio di studio e seguo invece Luis Chaparro, un giornalista trentenne di «El Diario» che, dopo essere stato costretto a fuggire di là dal confine per nove mesi a causa una minaccia di morte, ora è tornato nella sua città natale. «Non potrei vivere altrove», dice. Attraversiamo a piedi Mariscal, fino a pochi anni fa la zona a luci rosse di Juarez e ancora sotto il controllo del cartello La Linea. Il governo ha deciso di radere al suolo i locali notturni. Vedo solo costruzioni diroccate, un muro con l’affresco di una ballerina è tutto ciò che rimane di una famosa discoteca. Il cartello di Sinaloa, che può contare su forti legami anche di sangue con i narcos locali, ha costretto i rivali de La Linea a ritirarsi in un’area limitata e poco appetibile di Juarez. Secondo alcuni è questa la ragione per cui la violenza è diminuita nel 2013 (appena trecento omicidi quest’anno). Altri, come il musicista, scrittore e gestore dello splendido bar La Cucaracha, Roberto Lopez, pensano che governo e stampa abbiano solo smesso di registrare il numero di morti.
Tutte le istituzioni sembrano compromesse. Quando nel 2008 il governo centrale decise di spedire l’esercito, furono istituiti decine di posti di blocco, gestisti dalla polizia locale, federale e dall’esercito. Gli automobilisti venivano fatti scendere dalle auto, senza poter prendere alcun oggetto personale. Gli agenti perquisivano la macchina e, senza eccezione, rubavano iPhone, carte di credito e denaro. La presenza dell’esercito non ha fatto che aumentare il tasso di violenza e il numero di vittime innocenti. Sembra che l’unica speranza, dicono in molti, sia che un cartello «ragionevole» prenda in mano la situazione e introduca un po’ d’ordine. Eppure anche questa è una triste meta lontana. Qui la violenza è democratica e fluida, vi sono decine di gruppi armati affiliati ora ad un cartello ora ad un altro. Gran parte delle armi arriva direttamente dagli Stati Uniti, dove acquistare questa merce è facile come comprare il pane. I doganieri messicani sul ponte che collega El Paso a Juarez si guardano bene dall’ispezionare le merci in transito verso il Messico. Mentre il dibattito internazionale è monopolizzato dalle ragioni pro e contro la liberalizzazione della droga, un gesto concreto sarebbe imporre maggiori controlli sul commercio (legale e illegale) di armi verso il Messico. Paradossalmente, avrebbe un effetto maggiore della liberalizzazione immediata della droga nel ridurre la violenza.
In macchina ci spingiamo fino ad Anapra, un quartiere senza acqua corrente ed elettricità che sorge ai piedi della collina dove furono ritrovati i corpi mutilati di molte donne impiegate nelle fabbriche maquiladoras, la versione messicana degli stabilimenti asiatici dove si producono a basso costo merci d’esportazione e si lavora a ritmi massacranti. Lo sviluppo economico incontrollato ha prodotto la crescita del Pil locale, ma anche crimini efferati. Chiedo a Kerry Doyle, che ha vissuto per quasi dieci anni ad Anapra prima di diventare la direttrice del Rubin Centre for the Visual Arts all’Università di El Paso, se si è fatta un’idea sui colpevoli. Dopo una lunga pausa, mi dice: «Non lo so. Le ipotesi avanzate sono tante, ma nessuna è mai stata confermata o smentita. L’impunità diffusa genera ignoranza». Migliaia di donne sono state violentate e uccise semplicemente perché era possibile farlo senza timore di essere scoperti. Non vi è un colpevole o un motivo singolo.
Kerry ha ragione. In questa parte del mondo non esiste una narrazione credibile su eventi chiave, suffragata da prove passate al vaglio di un aula di tribunale e valutate criticamente dalla libera stampa. Le indagini non si fanno e i giornalisti vengono uccisi. Gli esperti occidentali delle drug wars messicane attribuiscono ogni morto, ogni strage a sofisticati disegni dei capi narcos. Nessuno sembra accorgersi che la violenza qui è solo in parte legata a conflitti tra trafficanti. Una lite tra vicini può sfociare in un massacro che sembra un regolamento di conti. Ma non lo sapremo mai. Come non sapremo mai perché dieci vite sono state interrotte dopo una partita di baseball una sera di settembre. Abbiamo però la certezza che alcuni cittadini di Juarez non si faranno paralizzare dalla paura e continueranno a mangiare burritos, huevos e tortillas in una piazza semideserta tutte le domeniche, alle dieci di mattina. Una comunità, per dirsi civile, non deve aver paura di mostrare il proprio volto.