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 2013  settembre 29 Domenica calendario

IL PRANZO DEI FALCHI SPIAZZA TUTTO IL PARTITO


Mercoledì sera, dopo il plebiscito alla proposta di dimissioni di massa, alcuni deputati del Pdl-Forza Italia avevano raggiunto preoccupati i commessi di Montecitorio.

«Ma fino a quando le dimissioni sono revocabili?». Fino all’ultimo minuto, gli è stato risposto. Sorrisi. Sollievo. Perché Silvio Berlusconi è uno che dice «certamente» – e vuol dire certamente sì come certamente no – e non si sa mai. Certamente sì alle primarie del centrodestra e anche certamente no. Certamente non mi candido più e poi certamente mi ricandido ancora. Una confusione nemmeno tanto programmatica per cui oggi si smentiva ciò che si era detto ieri per riconfermarlo all’indomani. Si fraintendevano i fraintendimenti, in una malattia che con la senilità della Seconda repubblica si è aggravata fino alla disperazione di trovare una cura. Negli ultimi due anni ci si è ficcati dentro un Pdl-Pride pischedelico, nel quale tutto era buono. Era buono Angelino Alfano bravo come un figlio, una giovane certezza della politica di domani, ma era buono anche l’Angelino Alfano senza quid, e inadatto per verdetto dei sondaggi a guidare la coalizione alla conquista di Palazzo Chigi. Buono Mario Monti che è uno di casa nel giardino dei liberali e dei moderati, buono per il celebre rassemblement, ma buono anche il Mario Monti servo di Angela Merkel e responsabile di strozzinaggio fiscale.

L’Enrico Letta sì Enrico Letta no che è il coro dal giorno della condanna in Cassazione è stato soltanto l’epilogo (fin qui) di una marcetta folle, durante la quale i parlamentari berlusconiani andavano a mettere il capo sulle spalle dei cronisti per cercare conforto. Il partito bifronte, con la linea dei falchi e la linea delle colombe (per quanto la metafora sia ormai bolsa), a seconda di chi fosse l’ultimo interlocutore del capo, ha condotta una truppa non proprio eretta sulla spina dorsale a dire bianco o a dire nero, in base al giorno o persino all’ora. C’è stato, la primavera scorsa, il periodo delle liste: la lista degli imprenditori, la lista delle donne, la lista degli amici degli animali, la lista dei vegetariani; poi c’è stato il periodo delle anime, da organizzare naturalmente in lista, l’anima democristiana, l’anima liberale, l’anima socialista. Ci si buttava come in mare, pronti a tutto. E poi niente, dietrofront, che noia, ma li avete visti i sondaggi? C’è stato il mattino che l’Europa ci voleva buttare fuori dall’euro, e prego, facesse pure; e il mattino dopo Berlusconi era costernato perché lo si voleva dipingere da antieuropeista. Fino ai dettagli marginali e molto indicativi: Mario Balotelli era una «mela marcia» ma, dopo l’arrivo al Milan, con stipendio adeguato (non alle mele marce), si era tramutato in un «bravo ragazzo», quasi come Alfano.

Ieri la richiesta ai ministri di lasciare il governo Letta – un garbato ordine – è planata su un pomeriggio in cui non si parlava che di pentimento. Ma che strada stiamo imboccando? Ma siamo sicuri? Le domande retoriche di Berlusconi avrebbero trovato compimento, secondo le aspettative e il lavorio dei trattativisti, in un comunicato o addirittura in un video di fedeltà all’esecutivo e di apprezzamento per il Quirinale. Nessuno sapeva che ad Arcore si era finito di consumare un pasto da condannati. Il capo insieme con Niccolò Ghedini, Sandro Bondi, Daniela Santanchè e Denis Verdini. L’incendio era appiccato. Via tutti da Palazzo Chigi. Tutti a casa. Tutti nel bunker per l’estrema battaglia. Da noi si sono vissute un paio d’ore di delirio. Renato Brunetta cadeva dalle nuvole (un’ora prima aveva dichiarato di star tranquilli, non c’era fretta). Renato Schifani idem. Si diceva che pure Alfano (il segretario) non sapesse nulla di nulla, e non si scovava un ministro in grado di commentare la propria sorte, perché nessuno gliel’aveva comunicata. Poi il partito si è messo sull’attenti, com’è abituato a fare, ma in coda alle telefonate rimanevano dichiarazioni furenti, naturalmente contro quei «mascalzoni» dei falchi, ma anche contro un leader del quale si capisce poco da tempo, e che adesso è cupo, lunatico, rancoroso, particolarmente dittatoriale. L’unico a alzare la testa (oltre al sottosegretario Giorgetti) è stato, almeno fino a una certa ora, Fabrizio Cicchitto, che coi toni civili a lui abituali ha detto che decisioni di quella portata andrebbero prese nel partito, almeno dopo due chiacchiere, e non al digestivo di un pranzo ristretto. Poiché sono volatili anche gli attendenti, c’è da prendere sul serio fino a un certo punto le confidenze più irose. Ma per la prima volta dalle bocche pidielline è uscita la parola «secessione». E’ questione di giorni. O forse no.