Aldo Grasso, Corriere della Sera 28/9/2013, 28 settembre 2013
DA MINA A BANDERAS QUEGLI SPOT DELLA PASTA CHE ERANO AVANTI RISPETTO AGLI ITALIANI
L’ incauta intervista che Guido Barilla ha rilasciato alla trasmissione radiofonica La Zanzara («Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale») e le dichiarazioni della presidente Laura Boldrini sugli stereotipi maschilisti degli spot televisivi («Basta spot con la mamma che serve la famiglia a tavola») hanno suscitato molte polemiche, molte reazioni (la comunità gay ha minacciato il boicottaggio dei prodotti Barilla al grido di «Siamo tutti della stessa pasta»), molti discorsi. Il che la dice lunga sul ruolo che la pubblicità gioca ancora rispetto alle forme rituali di una comunità: non si limita solo a reclamizzare un prodotto, a interpretare una strategia di marketing; fa molto di più.
Per esempio, la famiglia tradizionale, nell’incanto fiabesco del Mulino Bianco, riunita intorno al desco, sembra essere il solo obiettivo commerciale di Barilla. Ma è così? Negli anni, la pubblicità, bella o brutta non importa, è stata capace di cogliere e raffigurare certi tratti del cambiamento sociale, raccogliendo «per strada» spunti, idee, immaginari diffusi. Li ha raccolti e li ha fatti circolare con insistenza e, nei casi migliori, con forza seduttiva.
In genere, il messaggio pubblicitario punta su un elemento che sia riconoscibile, simbolo di associazioni già note e riassuntivo di un carattere: ecco l’importanza dello stereotipo, nel quale si riassume uno slogan, una formula. Lo stereotipo genera altri stereotipi e spesso i discorsi che si fanno sulla pubblicità sono pieni di luoghi comuni, di neo-conformismo. Esemplare la dichiarazione del ministro Cécile Kyenge: «Barilla si commenta da solo».
Certo che si commenta da solo, essendo uno dei big spender degli investimenti pubblicitari.
Paradossalmente gli interventi di Barilla e Boldrini hanno reso una formidabile amplificazione mediatica agli spot del Mulino Bianco, mobilitando giornali, tv e social network in un grandioso discorso di metapubblicità i cui esiti commerciali sono imprevedibili (certamente il brand ha avuto grande esposizione anche se c’è già chi segnala una mancata difesa da parte dell’azienda sui social).
E, sempre paradossalmente, bisognerebbe non dimenticare che una delle grandi icone gay, Mina, è stata il più importante testimonial della Barilla. Dal 1965, per cinque anni, Mina ha realizzato per Barilla una serie di caroselli che sono diventati di culto, molti dei quali, per fortuna, sono ancora visibili su YouTube.
E, quanto a icone gay, anche Antonio Banderas, costretto oggi a colloquiare con una gallina, non scherza. Attraverso la pubblicità è possibile raccontare la trasformazione della famiglia italiana. Che, nella versione Barilla, si identifica con l’immagine del Mulino Bianco, ma non solo. L’idea del Mulino Bianco pare sia nata da una sollecitazione del sociologo Francesco Alberoni, consulente storico della Barilla: luogo idilliaco e «naturale», famiglia felice, convenzionale, la tavola come momento di ritrovo, la felicità come sigillo dell’armonia ricreata, «Dove c’è Barilla c’è casa».
Eppure, dovremmo interrogarci su cosa rappresenta lo spot più fortunato della lunga serie (una bambina che si attarda in classe e perde il pulmino scolastico e trova un gattino per strada; nessuno la sgrida quando torna a casa ed è il padre che porta in tavola la pasta) o quello del padre che aiuta i figli a fare la piramide con le sfoglie emiliane o quello dell’adozione internazionale (una bimba cinese dall’aria un po’ sperduta e spaventata arriva all’aeroporto accompagnata da una hostess) o quello in cui il maschio si atteggia a re dei fornelli mentre la moglie o compagna sta facendo la doccia. C’è persino uno spot del Mulino Bianco che ha tutta l’aria di mettere in crisi l’ideologia stessa del Mulino Bianco: il ragazzo porta a pranzo l’allenatore di basket americano senza avvertire la mamma; il padre è assente e sugli sguardi d’intesa tra i due adulti è fiorita una piccola letteratura.
Per non parlare del celebre spot firmato da Federico Fellini nel 1985, un inno al doppio senso e alla trasgressione: la scena si svolge in un ristorante di lusso, il cameriere elenca alla coppia un menu gustosissimo, ricco di prelibatezze francesi, e la donna tutta infoiata risponde «rigatoni». «E noi tutti in coro diciamo: Barilla...», è la risposta di tutti gli avventori.
La moderna pubblicità non si preoccupa tanto di narrare storie o di rappresentare ideologie, cerca piuttosto di «mettere in forma» particolari stili di vita. Se Barilla descrivesse una famigliola gay, come chiede Dario Fo, probabilmente il risultato sarebbe caricaturale.
Dei cambiamenti la pubblicità è lo specchio, magari un po’ deformante; ma svolge anche una indubbia funzione di «legittimazione indiretta». Quando lavora sottotraccia, la pubblicità è una grande fabbricatrice di «luoghi comuni», intesi nel senso sociologico di sapere collettivo dato per scontato, di presupposti non tematizzati, di categorie che orientano il rapporto con la realtà e le relazioni sociali.