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 2013  settembre 28 Sabato calendario

A TORINO C’ERA UNA PARTITA

Domani, all’assurdo orario delle 12 e 30, torna il derby di Torino, che i granata non vincono dai tempi del governo Dini e di Clinton (da poco) alla Casa Bianca. Eppure per decenni è stata una partita equilibrata ed entusiasmante

Uno dei primi derby che vidi finì 3-3. Marzo 1971, ero appena sbarcato a Tuttosport. Due rigori, naturalmente. Ma per il Toro. Li trasformò entrambi “trincea” Angelo Cereser. Chiesi lumi a Gian Paolo Or-mezzano. Non fu per niente vago: “Gobbacci, vi è andata bene. Ce n’erano quattro”.

Capito.

Boniperti l’avrebbe abolito. Se al cuore non si comanda, figuriamoci al transistor. Quella domenica del 27 marzo 1983, lasciò il Comunale sull’1-0, arrivò a casa che Platini aveva raddoppiato. Sembrava una passeggiata. Nel giro di tre minuti, successe il finimondo: Dossena, Bonesso, Torrisi. Il sottoscritto era al Comunale, e lì rimase fino al sabba euforico della curva Maratona. Ricordo la scarica granata, non dimenticherò mai l’incipit di Paolo Rossi. Spolverando il gesso della linea di fondo, soffiò il pallone a Van de Korput, olandese dal “baffo circasso” (come scriveva Vladimiro Camini-ti): una rapina “a piede armato”. Da una parte, Trapattoni; dall’altra, Bersellini. La Juventus, quel giorno, perse tutto: derby e scudetto.

Un altro che mi sovviene riguarda un arbitro, niente meno che Gigi Agnolin. È il 26 ottobre 1980. Gol di Causio. Raddoppio di Tardelli annullato per un fuorigioco più auspicato che provato. Doppietta di Ciccio Graziani. La seconda rete scaturì da un contatto tra Pulici e Zoff non proprio british.

Vidi Zoff – sì, Dino Zoff: proprio lui – abbandonare la porta e fiondarsi su Agnolin. Negli spogliatoi, Trap fece la spia, la dritta ci portò da Bettega che confermò: “L’arbitro ci ha detto, ‘se non la piantate vi faccio un mazzo così’”. Lessi su La Stampa che “il fischio di Agnolin era percepito come lo zufolare dolce d’un pastore”. Ho un dubbio, uno solo: l’aggettivo. Il campionato, Madama lo vinse comunque. Di quel safari, nelle moviole e nei bar sport, rimase il gol di Turone, non il bouquet di Agnolin.

All’ordalia del 7 marzo 1982 non partecipai. Ero a Tripoli, inviato della Gazzetta dello Sport. Dovevo esplorare il Camerun, pescato dalla Nazionale di Bearzot ai Mondiali che di lì a poco la Spagna avrebbe ospitato (e noi vinto). Juventus-Torino 4-2. Teleselezione, telefonini? Niente di niente. Ero ostaggio del centralinista dell’albergo. Chiamai casa. Capii tutto dalla voce di papà: “Due a zero per loro, Bonesso & Dossena”. Cadde la linea. La sera, telefonai al giornale. Usai la tattica di Paolo Villaggio, tifoso sfegatato della Sampdoria: per sapere cosa ha fatto, chiede sempre il risultato del-l’avversario. Chiesi cosa aveva fatto il Toro. “Ha perso quatto a due”. Tardelli, Scirea, Scirea, Brady. Me lo feci ripetere. Mi feci passare un collega. Le versioni coincidevano. Però.

Ci sono stati i derby degli anni Settanta, quando Juve e Toro erano l’ombelico del calcio italiano, l’ombelico e molto altro. Il Toro più grande del dopo Superga. I gemelli del gol, Pulici e Graziani, piedone Pecci, il poeta Claudio Sala, lord Zaccarelli , giaguaro Castellini, Gigi Radice occhi di ghiaccio. Vincevano spesso. Rammento l’edizione del 28 marzo 1976, la stagione dello scudetto granata. Autogol di Cuccureddu, autogol di Damiani, poi Bettega. Fu il pomeriggio del petardo a Castellini. E le milanesi? Periferia dell’impero.

Ce n’è uno che seguii dalla redazione de La Stampa. Arbitro, il principe Collina. La data, 19 marzo 2000. Il risultato, Juventus-Torino 3-2. Occhio al tabellino: autorete di Brambilla, rigore di Ferrante , autorete di Lentini, rigore di Del Piero, rigore di Ferrante. Ecco, l’ultimo penalty. È qui che vi voglio. Fallo di Zidane su Tricarico. Ripeto: di Zidane su Tricarico. Si era nell’area della Gobba, mancava poco alla fine. Non discuto l’episodio, discuto la “consecutio”. Acrobazia di Fabio Tricarico di Milano, classe 1969, una vita da mediano; tocco-spinta di Zinedine Zidane di Marsiglia, classe 1972, campione del mondo, pallone d’oro, eccetera eccetera. Una cosa così poteva capitare solo a Collina. E poi il 14 ottobre 2001, non visto ma televisto, il pallone di Salas che, come un artigianale satellite, continua a girare nel cielo sabaudo dopo la memorabile rimonta del Toro, da 0-3 a 3-3. Un rigore concesso agli sgoccioli, con Maspero che scava la buca e il cileno che, distratto, si scava la fossa. Ne uscì il lancio di un Apollo, materia di studi e di sfottò, fra Nasa(s) e Salas.

Oppure l’atto sacrilego di Enzo Maresca, tornato d’attualità quando, al recente mercato, si parlò di un possibile trasferimento al Toro. Era il 24 febbraio 2002, la Juventus stava perdendo 2-1, Maresca pareggiò sul filo del 90’ e poi si diede alla pazza gioia mimando le corna del Toro. Non l’avesse mai fatto. Venne inseguito e minacciato. Furono stappati dibattiti, si consultarono sociologi e feticisti. Sentenza: non si scherza con le liturgie. Ho tenuto per ultimi i brividi del 26 febbraio 1984. S’impose la Vecchia, 2-1. Da Selvaggi al Platini-show: di testa, su cross di Paolo Rossi, e su punizione. Parabole che come les neiges d’antan di François Villon continuano a emozionarmi, non meno delle rovesciate di Puliciclone, ogni volta che sfoglio il romanzo del derby. Già, dove sono finite le nevi di un tempo?