varie, 30 settembre 2013
LA FINE DEL SALOTTO BUONO PER IL FOGLIO DEI FOGLI DEL 30 SETTEMBRE 2013
Telecom è di fatto diventata spagnola, Alitalia prima o poi finirà sotto il controllo di AirFrance. Ansaldo Energia è destinata ai coreani di Doosan; Sts (sempre Ansaldo) finirà agli americani di General Electric; Hitachi si prenderà la Breda. In estate si era già discusso della cessione di Loro Piana a Louis Vuitton e dell’arrivo da noi di un mucchio di stranieri, in genere francesi, nel comparto stile-moda-cosmetica e in quello dell’alimentare. Giorgio Dell’Arti: «Le alienazioni di Telecom, Alitalia e delle società dell’Ansaldo segnano un salto di qualità. Almeno le prime due sono sempre state definite “strategiche” e quindi impossibili da consegnare agli stranieri». [1]
Ancor più delle aziende, ad essere entrato in crisi è un modo di fare capitalismo tutto italiano che per decenni ha camminato su due gambe: il sistema delle scatole cinesi e quello dei patti di sindacato. Con il primo sistema, per esempio, invece di possedere un’azienda, bastava possedere una società che di Telecom aveva solo il 22% per comandare lo stesso perché il resto era in Borsa e dunque era come avere il cento per cento. Un vecchio trucco, che ha consentito agli Agnelli di controllare il loro impero con percentuali che erano anche inferiori al 3%. [1]
Dopo essersi assicurati così il controllo a poco prezzo, i capitalisti italiani si sono difesi da eventuali attacchi dall’esterno (ingresso di soci sgraditi, offerte di pubblico acquisto) con i patti di sindacato: «Hanno messo in comune un pacchetto di azioni e deciso che quelle azioni è come se appartenessero a un solo socio; non possono essere vendute, votano allo stesso modo, eccetera. Tutte le grandi aziende italiane erano blindate così». [1]
Solo che adesso le grandi aziende italiane non fanno più profitto e non rendono nemmeno in termini politici, perché i politici hanno altro a cui pensare. Le partecipate sono piene di debiti (Alitalia ne ha più di un miliardo di euro, Telecom 40 miliardi e un patrimonio netto negativo di 17) mentre nei management vige una sola legge: concentrarsi sul core business per rendersi più snelli e trasparenti agli occhi dei mercati internazionali, abbandonando incroci, correlazioni e patti dalle logiche anti-mercato. Quindi, in pratica, non si può fare nient’altro che vendere. [2]
Il dato si fa ancora più rivelatore se è proprio da Mediobanca che parte l’ordine di liberarsi di tutti i patti di sindacato e vendere tutto ciò che non è strategico. Al tempo di Cuccia centro del sistema definito «salotto buono», fino a ieri catalizzatore di un reticolo intrecciato nelle principali istituzioni finanziarie e realtà industriali italiane, e oggi madre delle scatole cinesi a sua volta presente in tutte le altre scatole cinesi, provocherà un effetto a catena che determinerà la fine di tutte le partecipazioni incrociate: se tu esci dal mio patto, allora io esco dal tuo. [3]
Per l’appunto proprio oggi scade il tempo a disposizione dei soci per presentare le disdette dal patto di sindacato dell’istituto di Piazzetta Cuccia. Unipol, che ha ereditato da Fonsai il 3,83 per cento e deve venderlo per impegni Antitrust, è già stata autorizzata a uscire e dismettere la partecipazione. È altamente probabile che anche Generali comunichi lo svincolo del proprio 2%. Ed è possibile che decida per il disimpegno Carlo Pesenti, già uscito dal patto Rcs, che con Italmobiliare ha il 2,6% dell’istituto. [2]
Complessivamente dunque potrebbe staccarsi dal patto l’8,43%, scendendo dall’attuale 42,03% al 33,6%, con il gruppo B degli industriali con un peso quasi dimezzato (aveva il 19,06%): scenderebbe dal primo posto all’ultimo, dietro al gruppo C dei francesi guidati da Vincent Bolloré con il 10,93% (il gruppo A, le banche, ha il 12,03%). [4]
Percentuali che non comporteranno problemi tecnici: per il rinnovo basta il 30% e nessun azionista, in particolare il principale, Unicredit con l’8,6%, acquisirà poteri di veto dato che l’assemblea del patto delibera con maggioranza pari a due terzi delle azioni. Però la quota di capitale vincolata è in progressiva riduzione da tempo e alla soglia limite del 30% sono rimasti meno di 4 punti. [2]
Domani invece toccherà all’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, passare dalle parole ai fatti. Si riuniranno patto di sindacato e cda per l’approvazione del bilancio annuale: perdita netta di 179,8 milioni di euro a causa di svalutazioni, per 404 milioni, effettuate con il passaggio di tutte le partecipazioni, tranne Generali, al comparto dei titoli disponibili per la vendita. Questa operazione è propedeutica all’alleggerimento previsto del portafoglio azionario di 1,5 miliardi nei prossimi tre anni nell’ambito della rifocalizzazione sul core business e dell’addio al cosiddetto «salotto buono». [5]
«Quale banca di sistema, se non c’è sistema?» (Nagel).
Mediobanca nacque con la sola partecipazione nella società che possedeva il suo immobile ma lo statuto consentiva l’acquisizione di «interessenze azionarie» già dal 1949. Bocconi: «Dai bilanci si può verificare dal 1955 la presenza di un piccolo drappello di titoli di proprietà (pacchetti di Montecatini o Fondiaria Vita e Incendio). La consistenza delle partecipazioni cresce anche per “vocazione” negli anni Settanta ma in seguito assume, soprattutto con Generali, volumi che rendono configurabile Mediobanca come una holding. Adesso le dismissioni con la conseguente liberazione di capitale tendono al tentativo di recuperare l’originaria identità della banca d’affari». [2]
E le conseguenze non sono solo interne. L’uscita dai patti, passo preliminare necessario per le eventuali dismissioni, è destinato a riflettersi su diverse partite. Sergio Bocconi: «In questi giorni si gioca quella Telco-Telecom e Piazzetta Cuccia, in sintonia con gli altri soci italiani, ha già dichiarato di voler metter fine allo status quo e comunicato la volontà di disinvestire. Per quanto riguarda poi Rcs Mediagroup, editore del Corriere della Sera, l’istituto (socio con poco meno del 15 per cento) ha sì aderito pro-quota, ma ha però ribadito la volontà di svincolare la partecipazione dal patto in scadenza nel marzo 2014 e le cui disdette vanno comunicate entro fine ottobre. E sembra possa andare nella stessa direzione riguardo al patto Pirelli, nei mesi scorsi rinnovato solo per un anno. Sebbene da prevedere più in là nel tempo è infine già deciso l’alleggerimento di circa 3 punti della quota in Generali, oggi pari al 13,2 per cento, opzione che appare a questo punto indipendente da impegni regolatori». [2]
Così i poteri (ex) forti hanno deciso. La prima azienda “strategica” che verrà sacrificata sull’altare delle dismissioni sarà di Telecom Italia. Dopo essersene contesi il controllo per 16 anni, stanno per consegnarla, per pochi spiccioli, a Telefonica Espana. Giorgio Meletti: «La Telecom è stata una macchina da soldi che ha propiziato arricchimenti e carriere.
Adesso non c’è più niente da spolpare ed è un problema di cui liberarsi al più presto. Le cosiddette “banche di sistema” e i profeti dell’italianità riscoprono gli imperativi categorici del mercato». [7]
L’operazione, per ora, riguarda Telco, la società che controlla Telecom. Al centro della scena c’è il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè, ormai prossimo alle dimissioni (già giovedì potrebbe prendere il suo posto Sarmi, ad di Poste italiane). Ha bisogno di capitali da investire sulla rete (soprattutto sulla banda larga) ma l’azienda non li ha perché è ancora gravata da 40 miliardi di debiti accumulati da Roberto Colaninno (che scalò il colosso a spese della stessa Telecom nel 1999) e da Marco Tronchetti Provera che la rilevò nel 2001. «Bernabè voleva puntare a un aumento di capitale, cioè i soci che iniettano denaro nell’azienda. Ma i padroni di Telecom non vogliono scucire un euro, perché quando l’hanno comprata lo hanno fatto per il controllo (in italiano corrente: il potere) e non per investire nelle telecomunicazioni». [7]
Che gli attuali padroni di Telecom non vogliano investire in telecomunicazioni, del resto, è comprensibile. Basta guardare da chi è composto il salotto buono denominato Telco. Meletti: «Questa scatola appositamente costituita nell’aprile 2007 ha acquistato dalla Pirelli di Tronchetti le azioni Telecom a 2,8 euro l’una, con un investimento di 4,5 miliardi. Oggi il 22,45 per cento di Telecom, che basta a Telco per comandare, vale in Borsa circa 750 milioni. I soci di Telco sono Telefonica Espana con il 46,18 per cento, Mediobanca e Intesa Sanpaolo con l’11,62 per cento a testa e Assicurazioni Generali con il 30,58 per cento. Il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, ha detto a chiare lettere che lui vuole sbarazzarsi dell’investimento. Il boss di Generali, Mario Greco, è sulla stessa linea: come spiegare agli azionisti che la compagnia ha perso un miliardo e mezzo per giocare con i telefoni?». [7]
Vivo imbarazzo è anche quello che sta vivendo la seconda banca italiana, Intesa Sanpaolo, già autoelettasi “banca di sistema” (ha all’attivo la spericolata difesa dell’italianità di Alitalia), dove si sta consumando lo scontro tra il presidente Giovanni Bazoli e l’ad Enrico Cucchiani (anche lui ormai prossimo al defenestramento). La tesi più realistica è che lo scontro sia avvenuto tra due modelli di gestione della banca; il primo interpretato per decenni dall’83enne presidente bresciano con l’imperativo di far diventare Intesa una banca di sistema secondo una logica relazionale. Per il laico Cucchiani, che veniva da una esperienza internazionale, questo modello è apparso sin dall’inizio provinciale e angusto. [8]
Dagospia: «L’anziano Bazoli, che Della Valle immaginava di mandare ai giardinetti, ha dimostrato una vitalità inattesa e l’intenzione palese di dare una mano al democristiano Letta per evitare che i problemi dell’Alitalia e di Telco minassero il Governo. Per l’Alitalia si è trovata una soluzione miseranda con 100 milioni che serviranno soltanto per consentire ai francesi di AirFrance di arrivare a concludere quel disegno di conquista che Romano Prodi, grande amico di Bazoli, aveva immaginato prima dell’arrivo di Berlusconi. Per quanto riguarda Telco e Telecom la decisione della banca è simile a quella degli altri due soci forti Mediobanca e Generali che hanno deciso di liberarsi del fardello scaricando sugli spagnoli il compito di vedersela con le varie Antitrust». [8]
Giorgio Dell’Arti: «I patti di sindacato, le scatole cinesi e – terzo elemento – la perenne disponibilità della politica a lasciare che i profitti fossero privati e le perdite pubbliche, sono dunque finiti. E l’addio a Telecom e ad Alitalia è molto di più che il passaggio in mani straniere di due campioni nazionali». [1]
(a cura di Francesco Billi)
Note: Note: [1] Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 25/9; [2] Sergio Bocconi, CorrierEconomia 23/9; [3] Alessandro Penati, la Repubblica 22/9; [4] Marigia Mangano, Il Sole 24 Ore 20/9; [5] Reuters 17/9; [6] Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 24/9; [7] Luca Pisapia, il Fatto Quotidiano 5/7; [8] Dagospia 27/9.