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 2013  settembre 28 Sabato calendario

ELIMINARE LE RIPETIZIONI È UN DELITTO

DA CASTIGARE –
Nelle prime righe di Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij c’è una frase che, tradotta un po’ alla sveltina, potrebbe suonare così: «Il suo bugigattolo si trovava proprio sotto il tetto di un’alta casa a quattro piani, e assomigliava più a un armadio che a un appartamento. La padrona dell’appartamento poi, dalla quale aveva affittato questo bugigattolo, pulizie e vitto compresi nel prezzo, abitava un piano sotto, in un appartamento a sé stante, e ogni volta che lui usciva gli toccava passare davanti alla cucina della padrona di casa, quasi sempre aperta in sbando sulle scale». Come avrete forse notato, in queste poche righe si ripetono due volte la parola «bugigattolo », due volte la parola «padrona » e tre volte la parola «appartamento ».
Ecco: c’è una nuova traduzione, di Delitto e castigo, appena uscita per Einaudi (la traduttrice è Emanuela Guercetti) dove queste righe suonano così: «L’abbaino si trovava proprio sotto il tetto di un alto palazzo di cinque piani e somigliava più a un armadio che a un’abitazione. Quanto alla padrona di casa che gli affittava quel buco, vitto e pulizie compresi, abitava una rampa di scale sotto, in un alloggio a parte, e ogni volta, uscendo in strada, al giovane toccava per forza passare davanti alla sua cucina, la cui porta era sempre spalancata sulle scale».
Il bugigattolo (che nell’originale è «kamòrka») viene reso con «abbaino», e poi quello stesso abbaino diventa «buco »; la padrona (che nell’originale è «chozjàjka») una volta compare e una volta viene sostituita da «sua»; l’appartamento («kvartìra», nell’originale) diventa prima «abitazione» e poi «alloggio» e il risultato è che nella traduzione italiana non c’è neanche una ripetizione.
La cosa mi è suonata strana in particolare perché si trattava di Delitto e castigo, e a me sembrava di aver letto, quando facevo l’Università, un saggio di un critico che si chiama Toporov che parlava della funzione delle ripetizioni in Delitto e castigo, e lo sono andato a cercare, e l’ho trovato, e ho letto che Toporov aveva notato che, in riferimento, per esempio, alla parola «vdrug» (improvvisamente), «nelle 422 pagine del romanzo la parola “vdrug” ricorre 560 volte». «Nella letteratura russa», ha scritto Toporov, «non ci sono altri esempi di testi paragonabili, sia pure alla lontana, a Delitto e castigo per quel che riguarda la frequenza della parola “vdrug”».
Adesso sarebbe forse bello vedere cosa sono diventati questi «vdrug» nella nuova traduzione italiana, che a me è sembrata, a parte questo fatto delle ripetizioni, molto leggibile, anche se, per via di questo fatto delle ripetizioni, mi è venuto in mente il romanzo American Psycho di Bret Easton Ellis, nella prima pagina del quale compare tre volte la parola «bus», che significa, come sappiamo, autobus. Nella prima traduzione italiana di quel romanzo, il traduttore aveva tradotto il primo «bus» con «autobus», il secondo con «corriera», il terzo con «torpedone ». E aveva ottenuto, anche lui, una pagina senza neanche una ripetizione. Solo che, a parte che autobus e corriera, come sappiamo, sono cose diverse, e torpedone chissà cos’è (un conoscente al quale ho raccontato questa storia di Brett Easton Ellis mi ha detto che, se lui trova in un romanzo che sta leggendo la parola «torpedone», ha l’impressione che sia successo qualcosa di brutto), questo fatto di usare dei sinonimi per evitare le ripetizioni, che è la cosa che ci dicevano i nostri professori quando facevamo le medie e le superiori, e che in un contesto scolastico ha forse senso, perché serve all’insegnante a capire qual è il bagaglio lessicale dell’allievo, in un contesto letterario rischia, delle volte, di diventare ridicolo, e ha come risultato una specie di appiattimento linguistico per cui i romanzi tradotti, alla fine, rischiano di essere scritti quasi tutti nello stesso modo che si potrebbe forse definire comme il faut.
Mi viene in mente Aldo Buzzi, che in un suo libro che si chiama La lattuga di Boston ha scritto che lui, quando trovava uno che scriveva «il pallone», e poi, due righe sotto, per non ripetere il pallone scriveva «la sfera di cuoio», ecco lui, Buzzi, a quello lì, gli avrebbe dato l’ergastolo, e mi vien da pensare che dev’essere stato uno che non gli piacevano mica tanto le mezze misure, Buzzi. Io però, devo dire, anche se non capisco tanto certe scelte di traduzione, e in particolare questa delle ripetizioni, ho ritrovato, nel cominciare a leggere questo Delitto e castigo, un incanto che mi ha ricordato la mia prima lettura, e il cappello comprato da Zimmermann mi sembrava di averlo visto per la prima volta ieri, e invece son passati quasi quarant’anni, a pensarci, e vederne una pila nella libreria Coop Ambasciatori di Bologna proprio all’ingresso, tra le novità, mi ha fatto venire in mente un libraio di Campobasso che ho conosciuto anni fa e che mi ha raccontato che quando un cliente della sua libreria gli chiedeva «Mi consiglia un bel giallo?», lui gli dava Delitto e castigo.