Filippo Facci, Libero 28/9/2013, 28 settembre 2013
INVECE DI ASCOLTARE NAPOLITANO IL PM CONVOCHI SE STESSO
C’è Antonio Ingroia, che ora vorrebbe fare l’avvocato di parte civile nell’inchiesta Stato-mafia che ha contribuito a creare. E poi c’è Antonino Di Matteo, il pm che lo affiancava e che vorrebbe far sfilare Giorgio Napolitano tra i testimoni del processo. I sostenitori della «trattativa» continuano ad accumulare materiale contraddittorio da incastonare in architetture sempre più improbabili, e ogni volta, genericamente, «chiedono spiegazioni» ma dimenticano di fornirne. Ma ora, forse, è arrivato il momento che a illuminarci una volta per tutte siano loro: Ingroia e Di Matteo, certo, ma anche magistrati come Gian Carlo Caselli, Anna Maria Palma e molti altri ancora. Perché c’è qualcosa che davvero non torna.
Tutto nasce da una notizia di domenica scorsa pubblicata da Repubblica, cioè questa: la procura di Caltanissetta, nel 1995, ordinò di distruggere una duplice intervista che un telegiornale, Studio Aperto, aveva appena fatto a Vincenzo Scarantino, l’uomo che si autoaccusò della strage di via D’Amelio che trucidò Paolo Borsellino; un’intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. Perché sequestrarono l’intervista? Per capirlo occorre spiegare un po’ di cose.
Sappiamo che attorno alla strage di via d’Amelio i magistrati siciliani hanno perso vent’anni e undici processi. E sappiamo che da qualche anno si straparla di un «depistaggio» che sarebbe stato costruito attorno al pentito Scarantino: il quale tuttavia ecco il punto fu creduto e stra-difeso dalla stessa cordata che ora parla di depistaggio e di «trattative».
Scarantino era un meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato coi transessuali Fiammetta, Giusi la sdillabrata e Margot: non proprio l’archetipo dell’uomo d’onore. Ma venne ritenuto credibile: dai magistrati, in primis. Questo anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera, alla voce Scarantino, dissero che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrò che Scarantino era un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia, appunto quella di via D’Amelio. A diffidare di Scarantino furono anche il giudice Alfonso Sabella, l’informatico Gioacchino Genchi e poi Carmelo Canale, il collaboratore di Borsellino. Persino Ilda Boccassini, che ai tempi era a Caltanissetta, lasciò una relazione in cui affermava che riteneva Scarantino completamente inattendibile.
Poi c’è direttamente Scarantino, che già nel 1993 raccontò come i poliziotti un mese prima l’avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi...’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare... ». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto e poi me lo hanno fatto firmare.
Il processo di primo grado seguì comunque il suo corso. Scarantino fu condannato a 18 anni con l’ergastolo per i complici che aveva indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano. Nel luglio 1995, però, alla giornalista Silvia Tortora venne recapitata una vecchia lettera poi diffusa dall’allora onorevole Tiziana Maiolo: l’aveva scritta la moglie di Scarantino e in essa si accusava gravemente il questore Arnaldo La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture ». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. Ma, sempre in quel luglio 1995, il procuratore Capo Giancarlo Caselli convocò i giornalisti e parlò di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». La difesa del «superpoliziotto» La Barbera, quel giorno, fu spettacolare. Lo difese il prefetto Achille Serra: «Conosco La Barbera da tanti anni, è un funzionario leale e un grande investigatore. Lo difese il procuratore generale Antonino Palmeri: «Barbera ha tutta la nostra solidarietà». Lo difese Caselli: «E’ inaccettabile e calunnioso... il dottor La Barbera quotidianamente dimostra la sua trasparenza e il suo coraggio».
Ecco: è in quel luglio 1995, precisamente il 26, che Scarantino decise di rilasciare la citata intervista a Studio Aperto: ripetiamo, al berlusconiano Studio Aperto, teoricamente vicino secondo certe accuse di oggi ad ambienti ritenuti vicini alla trattativa. E che cosa raccontò, Scarantino? Raccontò quella che oggi è accettata come verità: che fu torturato nel carcere di Pianosa e che il responsabile della montatura a cui fu costretto il depistaggio, appunto fu Arnaldo La Barbera, sempre lui. Cioè: Scarantino fu costretto a rivolgersi a una tv Mediaset perché tutta la stampa «antimafia» era in linea con le procure e i loro sostituti, «oggettivi» difensori del depistaggio. Ma l’intervista sparì: la stessa magistratura la fece sequestrare. La circostanza è stata resa nota domenica da Repubblica, come detto: quell’intervista del 1995, si legge sul quotidiano, «avrebbe potuto fermare il gigantesco depistaggio attorno all’eccidio di via D’Amelio... Vincenzo Scarantino telefonò alla redazione di Studio Aperto e denunciò di essere un falso pentito, di essersi inventato tutto sulla strage Borsellino dopo le torture subite... Ma la polizia sequestrò tutte le cassette e lo scoop scomparve». In altre parole, a non fermare il «gigantesco depistaggio » fu la Procura di Caltanissetta, che tra l’altro ordinò di distruggerle e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione. Scarantino lo fece. Fu aperta addirittura un’inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare ». La verità morì quel giorno, con la collaborazione decisiva delle procure: misero a tacere ciò che si sarebbe scoperto ufficialmente quasi vent’anni dopo.
Non mancò tuttavia qualche altra occasione di ripensamento. Nel settembre 1998, ancora, Scarantino mise a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura». Diceva il pm Annamaria Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia... Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Diceva il pm Antonino Di Matteo, due mesi dopo, in una requisitoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni... L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra». L’avvocato e senatore radicale Pietro Milio, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale di Scarantino che risultava pieno di annotazioni e correzioni. Non ebbe risposta.
La vicenda restò in sonno sino al 10 marzo 2009. Quel giorno un sodale di Scarantino, Salvatore Candura, raccontò ai pm di Caltanissetta che il questore La Barbera, prima di un interrogatorio con Ilda Boccassini, gli aveva intimato di continuare a incolpare Scarantino: in cambio, La Barbera gli avrebbe fatto avere degli aiuti. Pochi mesi dopo, in luglio, un altro teste, Francesco Andriotta, confermo tutto. Nel settembre successivo toccò a Scarantino a rimettere ancora una volta a verbale che La Barbera lo aveva fatto seviziare perché dicesse il falso. Va detto che nel frattempo La Barbera, nel 2002, era morto. Ma tutto questo non bastava ancora. Le ragioni per dubitare della versione «ufficiale» di Scarantino erano molteplici e di parte autorevole, ma furono gli stessi magistrati a non volerle ascoltare. Se fu depistaggio, trovò porte spalancate.
Tanto che, per far luce su via D’Amelio 17 anni dopo la strage si dovette aspettare l’apparizione di Gaspare Spatuzza. Fu lui a dimostrare di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. Fu solo da quel giorno che tutti i processi già celebrati Borsellino primo, Borsellino bis, Borsellino ter, vari appelli e cassazioni divennero ufficialmente spazzatura: un pattume avvalorato soltanto dalla testimonianza di un uomo che pure, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava e che c’erano in carcere degli innocenti condannati all’ergastolo. La Corte d’Appello di Catania dovette liberarli tutti nell’autunno 2010.
Dopodiché ecco, i disconoscitori di Scarantino da allora sono spuntati come funghi. Uno è Antonio Ingroia, che in un suo libro l’ha messa così: «Alle dichiarazioni di Scarantino non era stato acquisito alcun riscontro... Diedi incarico alla polizia giudiziaria di indagare. Quelle dichiarazioni si rivelarono non convincenti come, ormai è accertato, non lo era il teste ». Ingroia parlava di altri processi, ma c’era comunque da capirci di più, forse c’era da verificare quale manovra o depistamento fossero magari in corso: ma degli esiti di queste indagini non si ha notizia. Non risulta che Ingroia abbia mai denunciato Scarantino.
Il quale Scarantino, oggi, beffardamente, viene indicato come uno strumento a suo tempo innestato dai «trattativisti» di Stato per depistare la verità dalle indagini su via D’Amelio: anche se, come abbiamo visto, la patente di affidabilità di questo personaggio fu rilasciata proprio da chi ora denuncia il depistaggio.
Uno di loro è paradossalmente Antonino Di Matteo, pm che oggi istruisce il processo sulla «trattativa ». Quindi Di Matteo dovrebbe interrogare se stesso, al minimo. E lo stesso dovrebbe fare Caselli, e tanti altri: a Scarantino hanno dato credito una dozzina di pm e una trentina di giudici. Forse ci devono una risposta.