Paolo Mastrolilli, la Stampa 28/9/2013, 28 settembre 2013
“SONO TRADITI DALLA LORO STESSA BONTÀ VOGLIO SALVARLI DALLA FEROCIA DELL’UOMO”
«Ho sofferto molto, quando è morto Igor, perché a ucciderlo è stata proprio la bontà del suo carattere». Nulla lascia presumere che Nick Brandt stia parlando di un elefante selvaggio del parco keniano Amboseli, quando racconta questa tragedia. Nulla è ordinario, del resto, nella missione del fotografo londinese che si è messo in testa di salvare questi animali dall’estinzione: «Ogni anno denuncia - i bracconieri in cerca di avorio uccidono il 10% dell’intera popolazione mondiale di elefanti. Di questo passo, senza qualche intervento forte per fermarli, tra un decennio non esisterà più nemmeno un esemplare».
Brandt ha appena pubblicato «Nella terra ferita», il libro che completa la sua trilogia cominciata nel 2005 che in Italia uscirà il mese prossimo con Contrasto. Così adesso i tre titoli, letti in sequenza, compongono questo avvertimento: «On This Earth, A Shadow Falls, Across The Ravaged Land», su questa Terra cade un’ombra nella terra ferita. Al libro si aggiunge una mostra, aperta a New York e Los Angeles.
Perché ha cominciato questa campagna?
«Tredici anni fa, quando andai per la prima volta in Africa, quel continente era un paradiso. Ora è in corso una distruzione che non possiamo più ignorare».
Uomini e animali hanno convissuto per millenni: come mai proprio adesso stiamo andando verso il massacro?
«Noi siamo stati sempre uguali, ma ora la tecnologia ci ha dato gli strumenti per la distruzione su scala industriale. I nostri insediamenti si allargano, gli spazi per gli animali diminuiscono, e i mezzi per uccidere diventano più sofisticati. Europa e Nord America ci sono già passati, ora tocca anche all’Africa».
Il caso degli elefanti, però, è particolare. Perché?
«La domanda di avorio, cresciuta soprattutto in Cina e nell’Estremo Oriente, li mette più a rischio di altri animali. La classe media cinese è aumentata, e vuole questo materiale come simbolo del proprio status. Di conseguenza è salito il prezzo, da 200 dollari per libbra nel 2004, ai 2.000 dollari di oggi. Ciò ha reso il contrabbando molto più redditizio, e ormai l’avorio viene usato anche per finanziare le guerra in Africa».
Come vengono uccisi gli elefanti?
«In vari modi, dalle fucilate ai mitra. Alcuni bracconieri lasciano in terra angurie avvelenate, condannando gli animali che le mangiano a una morte lenta e orribile. Spesso strappano le zanne quando sono ancora vivi, ma molti clienti neppure lo sanno: pensano che siano denti, e che una volta estratte gli elefanti continuano a vivere».
Come è nata la sua passione per questi animali?
«Sono i miei preferiti, per la personalità, l’intelligenza, il modo di essere».
Che tecnica usa per catturare le loro immagini?
«Passo settimane intere senza scattare nulla. Gli animali sono come gli uomini: hanno carattere, personalità, faccia specifica. Bisogna aspettare il momento giusto, per riprenderli con la massima espressività».
Ci racconta la storia di Igor?
«Era un grande elefante molto socievole e fiducioso. Mi ha fatto avvicinare per scattare le foto, ma proprio questa sua bontà lo ha esposto alla ferocia dei bracconieri che lo hanno ucciso».
Si era appassionato anche a una femmina, chiamata Qumquat.
«Era una matriarca. I bracconieri le uccidono perché sanno che gli altri membri della famiglia tornano a cercarle, e così li attirano in trappola. Il 27 ottobre del 2012 la fotografai, con le figlie Qantina e Quaye, e i nipoti: 24 ore dopo erano tutti morti».
Come si ferma questa strage?
«Bisogna convincere i governi ad applicare le leggi contro la caccia. La chiave è coinvolgere le comunità locali, dimostrando che la conservazione della natura è un affare migliore del bracconaggio. A questo scopo ho creato la Big Life Foundation, che ora finanzia 315 ranger attivi nella regione di Amboseli: furono proprio loro a catturare gli assassini di Qumquat».