Alessandro Penati, la Repubblica 28/9/2013, 28 settembre 2013
LA VIA GERMANICA CHE ASPETTA ROMA
LE ELEZIONI tedesche sono state un plebiscito a favore della Merkel. Al terzo mandato, e con la maggioranza quasi assoluta dei voti, riuscirà a imporre le sue politiche con qualunque coalizione. Più che al siparietto della politica nostrana, sarebbe meglio guardare alla Germania per capire quale futuro ci attenda. Perché, come titola l’Economist, “Una donna li governerà tutti”: e si riferisce a tutti gli europei. Le indubbie capacità della Merkel ne fanno oggi l’unico astro politico, dopo l’eclissi di Obama, Cameron, e Abe, e le delusioni di Sarkozy e Hollande. Ha guidato la Germania, caso unico al mondo, fuori dalla crisi senza costi per il Paese: la disoccupazione, in discesa al di sotto del 6%, è al minimo degli ultimi 20 anni; l’avanzo record della bilancia delle partite correnti (6,6% del Pil, quasi il triplo della Cina) dimostra un’economia concorrenziale nel mondo; e, altro caso unico, il bilancio pubblico è in pareggio, senza però aver aumentato la pressione fiscale. Ma soprattutto ha salvato l’Euro dalla disgregazione: più che il “A qualunque costo” di Draghi, è stata la sua successiva benedizione agli interventi della Bce sul mercato dei titoli di Stato, in aperto contrasto con la Bundesbank, il vero spartiacque nella crisi della moneta unica.
Per la Merkel, però, il salvataggio dell’Euro passa dalla “germanizzazione” dell’Europa: è convinta che all’origine della crisi europea ci sia la mancata adozione da parte degli altri Paesi, in testa l’Italia, delle riforme che hanno permesso invece alla Germania di affrontarla con indubbio successo.
Primo, una profonda liberalizzazione del mercato del lavoro, per aumentarne la produttività, ridurne il costo e aumentare la competitività del Paese (con l’euro, il costo relativo per unità di prodotto si è ridotto del 14%). Secondo, il pareggio di bilancio, ma senza aumentare le tasse, per ridimensionare lo stato sociale. La Merkel ama ripetere, ricorda l’Economist, che l’Europa «ha il 7% della popolazione mondiale, il 25% del prodotto, ma il 50% della spesa sociale»: insostenibile. Terzo, un mercato dei capitali efficiente, smantellando le partecipazioni incrociate tra finanza e imprese per creare gruppi indipendenti in grado di espandersi e competere nel mondo (Deutsche Bank e Allianz sono oggi tra le pochissime in Europa in grado di farlo); e apertura agli stranieri, a dispetto della retorica: così Vodafone e l’americana Liberty sono libere di spartirsi la tv via cavo; e le reti del gas sono cedute al private equity straniero.
Questo è il programma della Merkel per l’Europa; ricordando anche che ogni Paese dovrà fare le riforme senza aiuti esterni; perché così ha fatto a suo tempo la Germania. Significa che l’Italia dovrà mantenere la domanda interna compressa e ridurre il costo relativo del lavoro per generare e mantenere un avanzo delle partite correnti (misura il flusso netto di risparmio con l’estero). Ma senza una riforma del mercato del lavoro e una ristrutturazione dei settori poco competitivi, sarà molto costoso in termini di occupazione. Il Paese dovrà convivere con rigidi vincoli di bilancio: e se non si riuscirà a tagliare la spesa pubblica (come probabile), gli italiani ne pagheranno il costo con una crescente pressione fiscale. Non bastasse, arriverebbero la Troika e infine un taglio del valore del debito pubblico, come in Grecia. L’onere delle ristrutturazioni bancarie e di eventuali dissesti, dovrà gravare interamente sugli azionisti e i creditori privati (come a Cipro o Spagna) ma senza aiuti di Stato. Piaccia o meno, il catalogo è questo. Né la Merkel cambierà rotta: tradirebbe l’ampio mandato fiduciario ricevuto dai tedeschi e le proprie convinzioni, che ha sempre perseguito con tenacia, e che sono alla radice del suo successo.
L’Italia ha fatto poco o nulla per “germanizzarsi”: l’aumento delle imposte, finora il piatto forte, non fa parte del programma. Il vero quesito dunque è cosa si esaurirà prima: se il capitale politico che la Merkel ha investito nell’euro; o la capacità dell’Italia di sopportare l’onere della sua incapacità di riformare. Certo è che l’Italia, e l’eurozona, non hanno ancora imboccato la strada di un equilibrio duraturo.