Fiamma Tinelli, Oggi 25/9/2013, 25 settembre 2013
VERDI E IL CLUB DEI 27
Mentre Rigoletto si aggiusta la cravatta, Un giorno di regno accende una sigaretta e discute con Falstaff di quale sia l’aria migliore da intonare durante il servizio fotografico. «Cantiamo il Va’ pensiero, via», «Ma no, ma dai, qui in mezzo alla strada?», «Essi, pazienza, non siamo mica coristi, noi, siamo semplici appassionati». Quando il Club dei 27 (quasi) al completo attacca con vigore l’aria del Nabucco sotto la luna piena, i passanti si fermano a guardare. Alle loro spalle, sulla seicentesca facciata della Casa della musica, nel centro di Parma, il faccione di Giuseppe Verdi sorride soddisfatto.
LA PRIMA RIUNIONE SI TENNE IN UN BAR
O prodi miei, seguitemi, S’apre alla mente il giorno (Aida, atto II).
Era il 1958 e al bar Grotta Mafalda, dopoteatro del Regio, Emilio Medici e Carlo Zivieri, melomani appassionati, decisero di aprire un’associazione dedicata alla musica di Verdi. Nella prima, fatidica riunione, si stabilisce che l’associazione conterà 27 soci, quante sono le opere di Verdi, non uno di più (i rifacimenti non contano). E che ogni socio porterà, a vita, il nome di un’opera verdiana. Quelli che rimpiangono l’aure dolci del suolo notai sul selciato di piazza San Francesco, stasera, sono una nutrita rappresentanza del club dei 27 edizione 2013. Tra di loro ci sono medici, impiegati, imprenditori, un tecnico alimentarista e un maestro elementare. Unica caratteristica comune: la passione per le opere del Maestro, coltivata con cura.
Versi di prece, ed umile qual d’uom che prega iddio; in quella ripeteasi un nome, il nome mio. (Il Trovatore, Il duello, scena II).
Sognano in tanti di entrare nel club: «Ci scrivono perfino dal Giappone», sorride Stefano Bianchi-Aida, tecnico d’azienda, portavoce dei 27. La lista d’attesa è decennale: si entra solo quando un socio rinuncia o scompare. Il candidato deve essere presentato da almeno altri due soci garanti della sua melomania, poi si va ai voti: se 1’aspirante socio viene accolto, prenderà il nome dell’opera lasciata libera dal predecessore, «e quel che càpita va bene, che le opere di Verdi sono tutte belle» (nota: i soci che portano il nome di un’opera femminile, qui, portano tutti la barba).
La donna è mobile, qual piuma al vento, muta d’accento e di pensiero (Rigoletto, atto III). Tutti uomini, di quote rosa nemmeno l’ombra: «Che vuole, è una consuetudine... Ma sia chiaro: fuori di qui le donne ci piacciono eccome, eh?», scherza Giovanna d’Arco, alias Fernando Zaccarini, funzionario d’azienda ora in pensione, folgorato sulla via di Peppino quando portava i pantaloni corti. Con l’ingresso nel club, ogni socio s’impegna a coltivare e diffondere l’opera del Maestro per la vita. Il Club dei 27, per dire, da 30 anni porta l’opera del Maestro nelle scuole di Parma, «e sapesse come si commuovono, i bambini, a sentire la storia della Traviata...». L’appuntamento al club, nei sotterranei del secentesco palazzo Cusani, è al giovedì sera, davanti a un piatto di tortelli e a un bicchiere di vino. «Ascoltiamo un’opera, mettiamo a confronto le diverse edizioni e ne discutiamo», spiega Aida. «Discutiamo, be’, si litiga anche, perché mica siamo sempre d’accordo, noi», chiosa Enzo Petrolini-Un giorno di regno, il presidente, pensionato, ex bancario.
E giù a raccontare dei tempi della Callas e della Tebaldi («Ma anche la Ricciarelli da giovane, ah, che voce»), dei do di petto di Del Monaco e di Bergonzi, «che di tenori così non se ne vedono più». E Pavarotti, l’italiano più famoso? Silenzio. «Mah, il Pavarotti giovane, sì, aveva una voce discreta, ma poi niente di che», borbotta Rigoletto, che nella vita gestisce un negozio di dischi.
NON HANNO PAURA DI CRITICARE
Pur di ascoltare le voci giuste, i 27 setacciano i teatri di tutto il mondo, sfidando all’arma bianca liste d’attesa lunghe mesi. «A luglio ho prenotato allo Staatsoper di Vienna due biglietti per un’opera che andrà in scena in primavera e ancora non so se c’è posto», sospira Falstaff, anche lui ex bancario. Contenti che nell’anno del bicentenario verdiano la Scala apra la stagione con la Traviata? Altro silenzio. Qualcosa non va? «Il cast», sibilano i ministri verdiani all’unisono. Ma come: la Scala, la prima, il teatro d’opera più bello del mondo... Sbuffi. «Meglio Vienna. O Zurigo. E, in Italia, il Regio di Torino».
Deh! fate o numi che per noi ritorni l’alba invocata dei sereni dì (Aida, atto III). Non le mandano a dire, i 27. Il decano degli ascoltatori è Rigoletto, Giuseppe Azzali. «L’anno scorso ho festeggiato i 60 anni di teatro; ho cominciato da bambino. I più grandi cantanti li ho ascoltati tutti, a Parma, a Milano, a Venezia. Oggi il livello generale è più basso, si cerca di coprire voci mediocri con messe in scena assurde. La gente, di opera, purtroppo non se ne intende più. E si accontenta», fa, mesto.
Di Peppino, invece, i 27 sanno tutto, biografia compresa. «Per fortuna Verdi era un grafomane», spiega Nabucco, che prima di andare in pensione faceva il fruttivendolo. «Se lo conosciamo è proprio grazie alle sue lettere». E com’era, davvero, l’uomo?
PER GLI ARTISTI VOLLE CAMERE SINGOLE
«Geniale, testardo, generoso e moderno», assicurano gli adepti. Provo a muovere qualche dubbio quanto alla generosità: non è forse vero che Verdi a Natale regalava 200 bottiglie di vino all’ospedale di Villanova d’Arda ma pretendeva che gli fossero resi i vuoti? E che, raggiunto il successo, a chi gli commissionava un’opera, prima ancora del libretto chiedeva dettagliati chiarimenti sul compenso? Forza del Destino, medico odontoiatra, s’inalbera: «Veniva da una famiglia povera: oculato sì, tirchio mai», assicura. «Quando fondò la casa di riposo per artisti e musicisti, a Milano, s’infuriò col direttore dei lavori perché aveva pianificato camere a sei letti. “Voglio una stanza per ogni ospite, e che sia con il suo servizio!”, gridò».
Se mia foste, custode io veglierei pe’ vostri soavi dì (La Traviata, atto I). E la fama di sciupa femmine? «Ma no, ma via, che vuole: a un uomo così popolare le donne cadevano ai piedi anche se non voleva», smorza Falstaff. Sarà, ma si racconta che tra le contadine che lavoravano nei suoi campi, girava il detto di «stare attente al Pipen, perché l’è uno psighen» (fare attenzione al Peppino, perché è uno che pizzica...). E sulle lacrime di Giuseppina Strepponi, colta seconda moglie di Verdi (la prima, Margherita Barezzi, morì giovanissima) pazza di gelosia per il soprano Teresa Stolz, si sono scritti fiumi di parole. Verdi, si dice a Busseto, la Stolz se la portò perfino a vivere nella villa di Sant’Agata, insieme con la povera Giuseppina, costretta a mandar giù lacrime amare.
CON GIUSEPPINA CONVISSE OTTO ANNI
«Sciocchezze», si accalora Falstaff. «Ma se per stare con la Strepponi, che prima d’incontrarlo aveva avuto due figli illegittimi, Verdi sfidò l’ira dei bussetani benpensanti!». Vero: il Maestro e Giuseppina convissero per otto anni prima di sposarsi. E Verdi difese la compagna a spada tratta, anche di fronte alla sua stessa famiglia, infuriata per questa relazione. Per un uomo dell’Ottocento, che aveva addosso gli occhi di tutti, un bel segno di libertà intellettuale.
Ma soprattutto, assicurano i 27, Verdi era un uomo retto, allergico alle pastette e ai compromessi. Patriota convinto, deputato e poi senatore nel Parlamento della nuova Italia unita, il compositore credeva che la politica dovesse servire la gente, e non viceversa. «Nel 1867 scrisse: “Basterebbe che ci fossero persone di buonsenso e perbene”», racconta Nabucco. «Mi dica lei se una frase così non andrebbe bene anche oggi...».
Sì, vendetta, tremenda vendetta di quest’anima è solo desio (Rigoletto, atto II). Di certo è vero che Giuseppe Verdi era uno che se le legava al dito. Nel 1832, a 19 anni, il musicista viene bocciato all’esame di ammissione del Conservatorio di Milano. E quando anni dopo, raggiunta la fama, il ministro Baccelli lo prega di dare il suo nome al Conservatorio milanese, il Maestro rifiuta sdegnato: “Non mi hanno voluto da vivo, non mi avranno neanche da morto”». «Ma il peggio lo fece da bambino», sussurra Giovanna d’Arco. Cioè? «A dieci anni, faceva il chierichetto, venne sgridato dal sacerdote per aver fatto cadere un vassoio durante la funzione. Il prete gli diede uno scappellotto e Peppino, furente, gli sibilò: “Ch’at ciapi na saièta! Che un fulmine ti colga!”». Vabbè, era un ragazzino... «No, no, aspetti, non ho finito! Sa come morì quel sacerdote, quattro anni dopo?». Come? «Arso vivo nella sua chiesa. Incendiata a causa di un fulmine». Ah, però. Buon compleanno, Maestro. Noi di Oggi, come i suoi 27, l’adoriamo, e mai le faremmo uno sgarbo.
Fiamma Tinelli