Stefano Folli, Il Sole 24 Ore 27/9/2013, 27 settembre 2013
ISTITUZIONI A RISCHIO
Quella che si profila non è ancora una crisi di governo. Ma è qualcosa di peggio perché rischia di diventare in tempi rapidi una crisi istituzionale: una crisi, come si usa dire, di sistema. Nel senso che può coinvolgere - e anzi di fatto sta già coinvolgendo - il principale istituto di garanzia del nostro paese: il Quirinale. Finora Giorgio Napolitano è stato riconosciuto da tutti, salvo frange massimaliste, come l’uomo in grado di assicurare l’equilibrio generale. Proprio sulla base di tale presupposto, come è noto, gli era stato chiesto di accettare il secondo mandato. E così è stato. Tuttavia adesso la spirale da psicanalisi in cui il centrodestra si sta avvitando investe in modo diretto e assai pericoloso l’intera impalcatura istituzionale, a cominciare dal Parlamento. E provoca un’ostilità del partito berlusconiano che sembra rivolta soprattutto a indebolire la figura del capo dello Stato. È un’involuzione senza precedenti, in un momento in cui l’Italia avrebbe bisogno solo di una stabilità operosa capace di affrontare un’agenda economica ricca di urgenze. Quali che siano le ragioni che spingono Berlusconi, in una sorta di estremo "cupio dissolvi", a minacciare l’apocalisse, le parole dovrebbero avere ancora il loro senso. E quindi evocare il «colpo di Stato» dei magistrati, contrapponendovi l’abbandono delle aule parlamentari, equivale a un biglietto per il teatro dell’assurdo dove la logica è stata cancellata. Il Pdl è stato votato per anni dagli italiani nella convinzione che si trattasse di una grande forza moderata e riformatrice. Oggi invece rappresenta lo strumento per l’ultima, disperata battaglia di un leader che ha avuto tutte le occasioni per cambiare il paese e anche per riformare la magistratura. E che oggi invece è ridotto a minacciare un conflitto distruttivo (per la comunità civile, le istituzioni, il mondo produttivo) nella speranza di prorogare l’appuntamento con il suo destino: ossia l’uscita dal Parlamento, la perdita dell’immunità, l’impossibilità di candidarsi alle prossime elezioni. È un dramma umano e politico che merita un certo rispetto. Ma a cui non si può permettere di essere quello che sta diventando, il grande falò in cui brucia la residua credibilità della nazione. «Un’umiliazione per l’Italia» l’ha definita Letta a New York. Come dargli torto? Un’umiliazione il cui costo sarà molto alto per tutti se nei prossimi giorni non interverrà un ripensamento. Le dimissioni in massa dei parlamentari del Pdl, per come sono state annunciate, non sono una cosa seria. Anzi, non lo sono mai state. Probabilmente si risolveranno in un breve Aventino, cioè nell’abbandono dei lavori d’aula per un numero "x" di giorni. Ma è chiaro che nessun governo può sopravvivere in queste condizioni. E diciamo pure che nessun governo, in particolare uno che pretende addirittura di essere, ironia delle parole, una "grande coalizione", può stare in piedi se l’architrave istituzionale, ossia il presidente della Repubblica, non viene riconosciuto nel suo ruolo. Tanto più nei giorni in cui il sistema politico è colpito e stressato da una vicenda emblematica come l’affare Telecom-Telefonica, in cui precipitano contraddizioni e opacità antiche e recenti. Come si esce allora da questo vicolo cieco? La strada è obbligata. In primo luogo occorre che il centrodestra sospenda l’attacco a Napolitano e usi verso il Quirinale un tono di rispetto istituzionale che significa ritornare alla civiltà del confronto. E poi serve che Enrico Letta sia molto determinato nel chiarire i rapporti con le forze politiche: tutte ma ovviamente il Pdl più di ogni altra in questa circostanza. Chiarimento non vuol dire una falsa "verifica". Vuol dire una riscrittura sostanziale del patto di maggioranza da fare in Parlamento. I ministri andranno messi di fronte alla realtà e subito dopo il presidente del Consiglio dovrà presentarsi nelle aule parlamentari per definire temi e contenuti dell’azione di governo. È chiaro che non si tratta di cavarsela a buon mercato. Il primo a non volerlo sarà proprio Letta perché al logoramento va posto un freno definitivo. Del resto, se i parlamentari del Pdl sono sul piede di partenza, quale migliore occasione di dirlo in faccia al premier, quando si presenterà alla Camera e al Senato per capire chi si sta mettendo sotto i piedi le istituzioni? Peraltro non si riesce a credere che il vasto mondo moderato che per tanto tempo si è fatto rappresentare da Berlusconi oggi sia scomparso. Probabilmente esiste ancora, con nomi e cognomi, e dovrà uscire dal suo silenzio se e quando il chiarimento non darà esiti. In ogni caso l’alternativa non potrà essere fra un governo stanco e impacciato e uno sfilacciamento inesorabile. Ora che tutto sembra precipitare, Letta ha l’opportunità e anche il dovere di uscire dalla crisi con un colpo d’ala. Sui punti concreti dell’iniziativa di governo e non su altro dovrà rinsaldarsi il patto di coalizione, se è ancora possibile farlo. Altrimenti sarà meglio che ognuno si assuma le proprie responsabilità.