Enrico Franceschini, la Repubblica 27/9/2013, 27 settembre 2013
LITTLE BRITAIN
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA
La Gran Bretagna è una piccola isola senza importanza». Pronunciata da un oscuro portavoce russo a proposito delle polemiche su un intervento militare in Siria, a margine del recente summit del G20 a Mosca, la battuta sembrava un affronto insignificante: difficilmente sarebbe entrata nei resoconti del giorno dopo sui giornali, ancora meno probabile che passasse alla storia. In sostanza non se ne sarebbe accorto nessuno, se David Cameron non l’avesse pubblicizzata con la sua indispettita reazione. «La nostra sarà anche una piccola isola», ha affermato a denti stretti in una conferenza stampa il primo ministro britannico, «ma ha combattuto il fascismo e lo schiavismo, ha inventato la maggior parte delle cose che valeva la pena inventare, incluso praticamente ogni sport giocato oggi nel mondo, e sfiderei chiunque a trovare una nazione con una storia più orgogliosa, un cuore più grande o una maggiore tenacia».
Excusatio non petita, accusatio manifesta, dicevano i latini. Per quanto ci sia indubbiamente del vero nel sintetico ritratto del Regno Unito tracciato dal leader conservatore, la sua irata risposta è apparsa a commen-tatori, avversari e alleati come un sintomo di insicurezza: i paesi veramente importanti non hanno bisogno di ricordare al mondo perché lo sono.
Così, da Mosca a Londra ad altre capitali, di battute ne è cominciata a circolare una ancora più cattiva: forse più che “Great Britain”, la Gran Bretagna odierna andrebbe chiamata “Little Britain”? Una “Piccola Bretagna”, come peso politico, economico, culturale, una “piccola isola”, per citare l’anonimo funzionario russo, la cui voce si perde nella cacofonia del dibattito internazionale?
L’idea che si stia restringendo, perlomeno nell’immaginario collettivo, deriva innanzi tutto da due decisioni che Londra ha preso da sé (una condivisa con Edimburgo): i referendum in programma per l’indipendenza della Scozia, nel 2014, tra un anno esatto, e per uscire dall’Unione europea (o restarci nell’ambito di un accordo rinegoziato), nel 2017. Se gli elettori risponderanno di sì ad entrambe le consultazioni, il Regno Unito si disunirebbe, perdendo la Scozia, e si isolerebbe al di qua della Manica, perdendo il legame con il resto del continente. Una secessione scozzese rischierebbe di metterne in moto altre, in Irlanda del Nord, dove i cattolici hanno smesso di farsi la guerra con i protestanti ma non di aspettare il ricongiungimento con l’Irlanda repubblicana, e in Galles, dove la diversità dagli inglesi viene portata come un fiore all’occhiello.
E allora cosa resterebbe della “Grande” Bretagna? Soltanto l’Inghilterra, per di più orfana di quell’Europa che, come Cameron ci ha tenuto a ricordare a Mosca, contribuì a sconfiggere il nazifascismo. Non sarebbe più neanche un’isola: una mezza isola, a voler esser generosi, una specie di Great London, stretta attorno alla cittadella finanziaria che costituisce già ora la sua principale ricchezza (30 per cento del Pil nazionale), una sorta di Hong Kong o Singapore anglosassone. Fantapolitica? Non più, con gli indipendentisti scozzesi fiduciosi di poter rescindere un giogo coloniale che dura dal tempo di Braveheart e gli euroscettici inglesi che scaricano tutte le loro frustrazioni economiche su Bruxelles.
Alla “Little Britain” resterebbe pur sempre la “relazione speciale”, così la chiamano come se fosse un amore semi-clandestino, con gli Stati Uniti, l’alleato della seconda guerra mondiale, dell’Afghanistan, dell’Iraq, del Datagate. Proprio nei giorni dello sprezzante commento sulla «piccola isola senza importanza », tuttavia, il parlamento britannico ha dato uno schiaffo al suo premier e implicitamente alla “relazione speciale” con gli Usa rifiutando di autorizzare un attacco al fianco di Obama contro la Siria per le armi chimiche. Un divorzio che a Londra e a Washington ha fatto scalpore al di là delle circostanze: l’azione militare stava naufragando anche al Congresso americano e poi è saltata per la proposta di mediazione russa, ma la diplomazia transatlantica non aveva mai visto una simile indifferenza da parte britannica per le posizioni Usa. Minacciata di secessione dai suoi “Stati-regioni”, minacciosa di separarsi dall’Europa e ora anche insensibile al richiamo del rapporto speciale con l’America: morale, una Britannia piccola e sola, tenuta attaccata soltanto al ricordo un po’ patetico del British Empire, l’impero più grande della storia, difeso con la sopravvivenza del Commonwealth. Ma anche in questa per certi versi obsoleta libera associazione si annida il germe della rivolta: Australia e Canada discutono di abolire la clausola che fa del sovrano britannico il loro formale capo di stato e quest’ultimo retaggio dell’impero potrebbe scomparire, quando la regina Elisabetta lascerà il trono a Carlo.
La sensazione di un restringimento giunge pure da segnali minori. Prima è arrivata la scelta del National Trust, l’ente che sovraintende i tesori nazionali, di dare l’etichetta di «monumento da preservare » alla casa del Grande Fratello, lo studio dove dal 2000 si gira il reality televisivo. «Prima che qualcosa possa seriamente essere considerato un simbolo delle nostre tradizioni, dovrebbe passare più tempo », si scandalizza l’ex-deputata conservatrice Ann Widdecombe.
Poi è scoppiata una polemica sul Lake District, bucolica provincia del nord-est inglese, nominato World Heritage Site, uno dei luoghi protetti del mondo, come il Taj Mahal in India o il Machu Picchu in Perù: George Monbiot, columnist progressista del Guardian, se l’è presa addirittura con William Wordsworth, riverito poeta nazionale, giudicandolo responsabile di avere magnificato eccessivamente «l’Inghilterra pastorale, che con le sue pecore ha fatto più danni all’ambiente delle ciminiere della rivoluzione industriale». Quindi ci si è messa la Bbc, interrogando eminenti geografi per stabilire che come isola, rispondendo all’affronto di Mosca, «la Gran Bretagna non è affatto piccola », è anzi la settima più grande del mondo, dopo Groenlandia, Nuova Guinea, Borneo, Madagascar, Sumatra e Giappone.
Ma non era una questione di misure geografiche, ovviamente. L’impressione è di un paese che ha perso la testa, o perlomeno vive una crisi di identità, non sapendo più in che cosa specchiarsi, nel suo countryside o nella rivoluzione industriale, nei suoi castelli o nel Grande Fratello.
Parafrasando il testo di una delle più famose canzoni patriottiche del regno, ilNew York Times ironizza che questa non è più the land of hope and glory, la terra della speranza e della gloria, bensì «the land of hope and worry», la terra della speranza e della preoccupazione.
È forse paradossale che si discuta di una Gran Bretagna rimpiccio-lita, dopo l’annus mirabilis del 2012, con il successo sportivo e spettacolare delle Olimpiadi di Londra, il trionfale Giubileo di Diamante della regina Elisabetta (sei decenni di regno) e anche l’annuncio della gravidanza di Kate, che a luglio ha partorito felicemente un nuovo erede per la monarchia, evento salutato con gioia da tutti e seguito in diretta mondiale. Ma come sembra lontana l’epoca in cui Tony Blair influenzava e portava al potere la sinistra con la sua Terza Via in tutto il continente, sognava di creare (e presiedere) degli Stati Uniti d’Europa in salsa anglosassone e aspirava a fare del suo paese, sebbene una piccola nazione, «un faro per il mondo». Quella, appena poco più di un decennio fa, si sentiva effettivamente una “Great” Bretagna importante e influente sugli affari mondiali. Questa di David Cameron, pur essendo la stessa isola, al confronto sembra davvero una “Little Britain”.