Alessandra Coppola, Corriere della Sera 27/9/2013, 27 settembre 2013
I BIMBI SIRIANI IN FUGA DALLA GUERRA TRA I PASSEGGERI IN STAZIONE A MILANO
MILANO — È tutto qui, in questo zaino di tela verde militare regalato dalla Croce Rossa e in una vecchia borsa portadocumenti. «Ogni altra cosa l’abbiamo venduta — dice la donna — orologi, anelli, collane. E così anche lei — indica la giovane che le siede accanto — ha tenuto soltanto questi», due bracciali d’oro. Il velo in testa, gli occhiali da sole, gli stessi vestiti da giorni, i mariti che parlano tra di loro e studiano come riprendere il viaggio, i bambini che giocano sull’erba stenta della stazione Centrale di Milano, una biondina si dondola sulla sbarra delle biciclette comunali: sono famiglie intere, e sono in fuga dalla Siria.
Madri e padri trentenni, tre, quattro figli a coppia, a volte un genitore anziano. Sono sbarcati sulle coste siciliane, un po’ di cibo e una coperta nei primi soccorsi, due notti nelle strutture d’emergenza e poi il treno da Catania a Milano, con l’idea di proseguire per il Nord. Magari la Svezia, sperano, che ha politiche di accoglienza per i profughi particolarmente generose. I soldi per il biglietto ce li hanno. Quest’uomo faceva l’idraulico, l’altro il commesso in un negozio. Gente semplice, dignitosa, con qualche risparmio. Scappati per le bombe, non per la miseria. I due gruppi qui nei giardinetti hanno cominciato il viaggio quasi un anno fa, quando era ancora possibile prendere un volo dalla Siria all’Egitto. Sono rimasti ad Alessandria finché non sono riusciti a imbarcarsi su uno degli scafi che attraversano il Mediterraneo, salvati da una nave cisterna, raccontano, e approdati a Siracusa. Milano è solo una tappa intermedia, da lasciare il prima possibile.
Li vedi che si muovono come ombre, silenziosi e attenti: non vogliono essere identificati, in Sicilia hanno fatto resistenza agli agenti che prendevano le impronte digitali, in Lombardia evitano gli sportelli di aiuto che siano del Comune o della Caritas: vogliono solo ripartire. Chi ha raggiunto il Nord è informato e sa che chiedere asilo in Italia non è un buon affare, perché ai rifugiati il Paese offre poco e perché inoltrare la pratica qui, in base ai regolamenti europei, significa non poter varcare il confine.
Devono anche stare attenti ai truffatori. In stazione si è sparsa la voce dell’arrivo a frotte dei siriani, raccontano che uomini nordafricani offrono passaggi clandestini, si prestano a fare biglietti, approfittano delle difficoltà a esprimersi in un’altra lingua che non sia l’arabo per togliere a queste famiglie gli ultimi soldi rimasti. È uno dei motivi per cui Abdallah e i suoi amici si danno il cambio in piazza. «Appena posso lasciare il lavoro — fa il marmista — vengo a vedere se ci sono connazionali che hanno bisogno di aiuto». Latte per i piccoli, un cambio di biancheria, ma soprattutto un tetto.
Safwan Bari si è portato a casa due donne e sette bambini, che con i suoi fanno undici. «Chiedo scusa per l’odore — nel salotto l’aria è irrespirabile —: sono due settimane che non si tolgono scarpe e vestiti», hanno pianto, hanno vomitato per il mare grosso, questo ragazzino coi ricci neri seduto sul divano ha pure rischiato di cadere in acqua. È la mamma a raccontarlo, Safwan traduce. Sono fuggiti da Erbin, quartiere alla periferia di Damasco, dopo l’attacco dell’esercito di Assad con le armi chimiche. Hanno raggiunto Latakia, la cittadina portuale a Nord di Homs, e lì hanno pagato. «Cinquemila dollari per ogni adulto, 2.500 per i bambini». Fanno 17.500, come ve li siete procurati? «Mio marito, commerciante d’automobili, li aveva messi da parte». Non abbastanza, però. Il resto viene da una colletta di amici e parenti, che si sono sacrificati perché almeno loro, i più giovani, si salvassero.
Gli scafisti «ci hanno detto che sarebbe stata una gita, che saremmo stati non più di settanta in una barca». E invece si sono ritrovati in 200, onde alte, acqua e cibo insufficienti, niente bagni, «i bambini si facevano la pipì addosso». Dieci giorni di sofferenza in mare fino a Lampedusa. Da lì, Catania e poi Milano. Hanno già fatto un primo tentativo di varcare la frontiera, vorrebbero arrivare in Germania, ma al Brennero la polizia austriaca li ha rimandati indietro. Adesso aspettano a casa di Safwan: «Sono siriano anche io — dice —, è il mio popolo, ma abbiamo bisogno di sostegno, da soli non ce la facciamo». Stanotte andrà a cercare un letto da un amico, per evitare alle donne l’imbarazzo di dividere l’alloggio con uno sconosciuto. Poi si vedrà.
Il centro di raccolta e di «smistamento» dei profughi è a poche centinaia di metri da casa sua, in un bar di Cologno Monzese ritrovo della comunità siriana a Nord di Milano. Ai tavolini sono tutti maschi e discutono di come affrontare l’emergenza. Non c’è posto per tutti, qualcuno dormirà in auto. S. M. per ora ha trovato ospitalità: 35 anni, rosso di barba e di capelli legati in una coda, una pallottola nel braccio sinistro sparata da un cecchino, nel suo quartiere alla periferia di Damasco aveva un negozio di scarpe, ma si dilettava anche di ritratti, ai matrimoni e alle feste. Quando è iniziata la rivolta, ha recuperato la macchina fotografica e racconta di essersi messo al servizio dei ribelli. Non vuole dire di aver combattuto, ma accetta di farsi scattare un’immagine, perché, dice «non ho paura, la mia faccia è già nell’album dei ricercati dalla polizia di Assad, mi hanno già bruciato casa e negozio, non ho famiglia, non ho più nulla». Per questo è fuggito. Lungo un percorso diverso, ma ugualmente costoso.
In macchina e a piedi ha raggiunto la frontiera con la Turchia. Di lì per arrivare a Istanbul ha pagato 2.500 dollari. Quindi un trafficante l’ha condotto sulla costa e imbarcato con altri cinque per un’isola greca, dove si è confuso tra i turisti e ha preso un traghetto per Atene. Altri 2.000 dollari per biglietto aereo e documenti falsi, tre imbarchi falliti, finché è riuscito a salire su un charter delle vacanze ed è atterrato ad Orio al Serio, Bergamo.
Ufficialmente, anche lui, qui in Italia non esiste.