Riccardo Bocca, L’Espresso 27/9/2013, 27 settembre 2013
ARRIVANO I NO TRIV
È mercoledì 4 settembre, quando sul sito Internet del ministero dello Sviluppo economico spunta un annuncio degno di applausi. Il titolo suona inequivocabile: "Dimezzate le zone marine aperte a ricerca e produzione di idrocarburi". Immaginate, a questo punto, i brindisi di chi osteggia da sempre la trivellazione dei nostri mari per estrarre gas e petrolio. Di colpo, il furore delle polemiche pare sopirsi davanti alle nuove mappe, che indicano una riduzione delle aree perforabili da 255 a 139 mila chilometri quadrati. Peccato, però, che sia una gioia transitoria, quella indotta dal ministro Flavio Zanonato, e dalla sua esplicita intenzione di coniugare «ambiente e sviluppo». «In realtà», contesta Stefano Lenzi, capo dell’ufficio legislativo del Wwf Italia, «è l’ennesima beffa. Il governo, è vero, ha introdotto questa estate una serie di limitazioni, ma non è intervenuto sullo sciagurato effetto sanatoria del decreto 83, grazie al quale nel 2012 le compagnie petrolifere, dopo aver colonizzato il mare Adriatico, sono state autorizzate ad assaltare aree preziose come Pantelleria, altri tratti del Canale di Sicilia e il mar Ionio».
Domanda sacrosanta: chi ha ragione? Risposta: tutti, a sentire i due schieramenti. Da una parte scalpitano i petrolieri, per i quali «le ossessive censure degli ambientalisti sono, oltre che miopi, non in linea con la strategia energetica nazionale», mentre dall’altra parte il popolo dei "No Triv" accusa i padroni delle piattaforme di esercitare «una violenza forsennata sul territorio, questo sì ottimo petrolio di cui la nazione abbonda». Giusto un assaggio della polemica in corso. E il più naturale dei prologhi per il dossier "Trivelle in vista: mappa aggiornata del rischio piattaforme off-shore nei mari italiani". Una cinquantina di pagine, lette in anteprima da "l’Espresso", dove il Wwf denuncia i limiti e le contraddizioni della caccia acquatica all’oro nero. Una gimcana tra bizantinismi politici, normative discutibili e allarme piuttosto rosso per alcuni tratti dei 7 mila 500 chilometri delle coste peninsulari. Tutto, racconta il documento (basato sulle analisi dell’attivista Fabrizia Arduini), partendo dalla considerazione che «l’Italia è lo Stato del Mediterraneo più a rischio per inquinamento in mare da idrocarburi», con il primato di «ben 14 principali porti petroliferi e 17 raffinerie».
Un contesto ancora più «opprimente», dice il responsabile mare del Wwf Marco Costantini, «se consideriamo l’insieme delle attività collegabili agli idrocarburi nelle nostre acque». Numeri che in effetti stupiscono, scorrendo il dossier. Basti pensare ai 30 mila 800 chilometri quadrati di mare interessati da «tre istanze di permesso di prospezione (una delle varie fasi di studio prima delle trivellazioni, ndr.)». O agli altri 14 mila 500 chilometri inclusi nelle "istanze di permesso di ricerca". Per non dilungarsi sulle 104 piattaforme già attive, o sulle 67 "concessioni di coltivazione" sparse in «un’area di 9 mila chilometri quadrati con 335 pozzi a gas e 61 a petrolio».
Cifre che, nell’immaginario approssimativo dei non addetti ai lavori, potrebbero evocare un potente vortice di estrazioni, in grado di incidere sull’economia nazionale. Invece il film è un altro, assai meno avvincente. «A fronte di un fabbisogno annuo complessivo medio di 80 miliardi di metri cubi standard (mcs) di gas», illustra il dossier Wwf, l’off-shore ha fornito nel 2012 «soltanto 6,034 miliardi di metri cubi». E lo stesso discorso è valido per il petrolio, «di cui ogni anno servono 70 milioni di tonnellate, mentre l’off-shore nel 2012 ha garantito appena 473 mila 377 tonnellate».
Da qui, dunque, parte l’indignazione degli ambientalisti: «Dalla constatazione che invece di puntare su territorio, turismo e fonti rinnovabili, stiamo ancora discutendo di idrocarburi e inquinamento». Non basta, per placare gli animi, che le compagnie petrolifere neghino qualunque rischio ambientale, lamentando in parallelo «mille lentezze e incongruenze nel rilascio delle concessioni». Lo scontro resta frontale, come dimostra quanto sta accadendo in Abruzzo per l’Ombrina mare: un progetto petrolifero della britannica Mediterranean Oil & Gas, che dovrebbe svilupparsi cinque chilometri al largo della costa di Chieti. «Lo scorso 13 aprile sono scesi in piazza 40 mila cittadini», dice il Wwf. Ma proprio su "l’Espresso" Chicco Testa, nei panni di lobbista della società inglese, ha scritto al ministro dell’Ambiente Andrea Orlando contestando paradossi e ritardi nell’iter dei permessi. Risultato: la replica del ministro, che ha sottolineato la necessità di un «pubblico dibattito» su questioni tanto delicate. E a seguire, la contraerea del Wwf, per il quale il blocco dell’Ombrina mare striderebbe con la presenza in zona del Parco nazionale della costa teatina. Anche perché, avvertono gli ambientalisti, «non si tratterebbe di una semplice piattaforma estrattiva, ma avrebbe al suo fianco una raffineria galleggiante lunga 320 metri».
Segue, come sempre, dibattito. Ma segue pure un’altra fonte di attrito, racchiusa tanto per cambiare nel dossier "Trivelle in vista". Questa volta, al centro delle polemiche, è il trattamento economico riservato a chi cerca gas e petrolio sotto i fondali italiani. «Su 67 progetti di coltivazione», si legge, «quelli attivi sono 50». E di questi, «27 non superano la franchigia», risultando in automatico esenti «dal pagamento delle royalty» a Regioni e Stato italiano. Un regalo previsto dalla nostra legge, per la quale le compagnie possono estrarre fino a 80 milioni di metri cubi standard di gas senza pagare un euro, mentre per il petrolio l’asticella del gratis è fissata sotto quota «50 mila tonnellate».
Se a ciò si somma che le royalty in Italia consistono «al massimo nel 10 per cento del valore degli idrocarburi liquidi (contro valori all’estero che oscillano tra il 20 e l’80 per cento)», si capisce perché agli stranieri piaccia tanto trasformare in gruviera i nostri mari. Tantopiù che il Wwf definisce «risibili» i canoni annui per le attività connesse alla perforazione. Il che significa che una società petrolifera paga soltanto «6,82 euro al chilometro quadrato» per un permesso di ricerca. E che la tanto agognata "concessione di coltivazione", happy end di ogni processo estrattivo, non oltrepassa la «soglia dei 54,48 euro a chilometro quadrato».
Quanto dovrebbe bastare, sulla carta, a rendere euforici gli operatori di settore. Eppure non è così. Perché l’opposizione dei cittadini, dalla costa abruzzese fino al golfo di Taranto, dove anche la Chiesa si è schierata contro le trivelle di Shell e Apennine Energy, ha generato un clima di insofferenza generale: «Se gli italiani non vogliono la ricerca petrolifera», ha detto il numero uno di Eni Paolo Scaroni, «non la faremo». Che poi è quello che si augurano gli abitanti di Pantelleria, angosciati in questo periodo dalle avance dell’australiana Audax. «La minaccia petrolifera», si legge in una raccolta di firme ambientalista, «incombe su una delle più belle isole del Mediterraneo, paradiso dei sub e degli amanti del mare incontaminato». E già qui il cuore inizia a stringersi. Ma ancora peggio è scoprire, dal dossier Wwf, chi ha innescato questa situazione. Trattasi, infatti, del governo Monti, che con l’articolo 35 del decreto 83 «ha fatto salvi tutti i procedimenti autorizzativi aperti al giugno 2010». Tra i quali, appunto, quello di Pantelleria.
Grazie a questa svolta tattica, racconta il dossier Wwf, sono tornati in gioco sia il progetto dell’Ombrina Mare, sia quelli previsti «nel Canale di Sicilia, nel golfo di Taranto e nel mar Ionio». Scenari, tra l’altro, dove i nomi dei trivellatori sono internazionali ma anche di casa nostra: dall’inglese Northern Petroleum fino alla Petroceltic Italia srl. Tutti schierati, senza defezioni, a giurare che il tripudio delle nuove tecnologie eviterà scempi all’ambiente. Dopodiché, però, c’è da considerare anche il dossier Wwf, secondo cui «le emissioni di aria utilizzate per le prospezioni sottomarine», chiamate "air gun", causano «effetti dannosi rilevanti all’epitelio di molti pesci e mammiferi marini». Come altrettanto preoccupante, sottolinea il documento, è l’effetto delle sostanze tossiche per la vita marina incluse nei «fanghi perforanti a base di acqua»; in particolare, si precisa, se «mescolate durante la perforazione agli scarti gassosi e fluidi».
«È questo il tipo di sviluppo che vogliamo rincorrere?», chiede il presidente del Wwf Italia Dante Caserta. «E soprattutto: perché insistere in questa direzione, se è appurato che nuoce all’ambiente e non genera benefici per la collettività?». Domande che si schiantano, inevitabilmente, contro il contenuto della Sen, la Strategia energetica nazionale approvata dal governo dimissionario Monti a marzo 2013. Nel testo, ricorda "Trivelle in vista", si punta al «raddoppio della produzione di idrocarburi al 2020», e al tempo stesso si cita «l’attenzione a uno "sviluppo sostenibile"». Ma com’è possibile, protestano gli ambientalisti, rispettare il nostro territorio, «se non c’è ancora una stima della ricaduta che un simile piano avrebbe sugli ecosistemi marini e costieri?».
Nel dubbio, tutto comunque procede. A zig zag, ma procede. E grazie al decreto Zanonato, si battezza anche una nuova zona di sfruttamento per gli idrocarburi tra Sardegna e Baleari: «Grande», mostrano al Wwf, «ancora più della Corsica».