Filippo Sensi, Europa 27/9/2013, 27 settembre 2013
IL POPULISTA DEMOCRATICO E I SUOI NEMICI
Quando gli fanno quella domanda, la domanda, e cioé se, in fondo in fondo, sia davvero di sinistra, Matteo Renzi si mostra tutt’altro che contrariato, anzi. Come a dire di non temere l’esame del sangue che pure gli viene richiesto ogni due per tre per capire se, veramente, sia uno di noi, uno dei nostri.
Glielo ha chiesto Enrico Mentana, alla festa del Partito democratico di Genova, ultima domanda, quella quando hai le difese basse e puoi scivolare. Ma il sindaco di Firenze ne ha approfittato per un finale in crescendo, declinando la parola sinistra, così insidiosa e ispida, con una sfilza di impegni presi e, secondo lui, onorati a Firenze. Le biblioteche pubbliche, gli asili nido, la pedonalizzazione, il wifi libero. Cioè, una sana lista di cose “tradizionalmente” di sinistra, senza rinunciare, tuttavia, al suo frame più abituale, quello della lotta contro il conservatorismo, contro una certa compiaciuta supponenza, e poi, colpa grave, contro la voluttà minoritaria della sconfitta.
Insomma, ancora oggi, a poche settimane dalla sfida delle primarie, Renzi non rinuncia a tenere insieme i due corni: quello che gli è più congeniale, del merito, del talento, secondo la suggestione blairiana che gli viene spesso rimproverata, in particolare a sinistra, come fosse una malattia; e quello, invece, di una concretezza a misura di città. di servizi e impegni misurabili, del tutto post-ideologica, ma compatibile con il lessico famigliare di una comunità esigente, che vuole essere rassicurata nella propria identità.
«Dare garanzia a chi garanzia non ce l’ha», risponde il sindaco a Mentana, saldando quella «garanzia», apparentemente così poco renziana e old style, a quel riferimento a «chi garanzia non ce l’ha» che significa non il solito popolo della sinistra, non solo la sua constituency naturale.
Difficile che Renzi perderà questo doppio passo, anche alla prova delle primarie che, almeno in teoria, dovrebbero recintare il suo potenziale entro il perimetro democratico, ed è questo un nodo ancora aperto nella definizione delle regole di ingaggio. Quindi, sinistra, e non «centrosinistra», con il trattino o meno, senza perifrasi, insomma, chiamando le cose con il loro nome. Ma cercando di non perdere il drive della rottamazione, il filo diretto di un consenso più largo, che non si rinserri solo nell’accudimento di una base spaesata.
In fondo, è questo il mix di quel «populismo democratico» che, negli anni ‘90, faceva rima con Bill Clinton e Tony Blair. E oggi rischia di somigliare più alle ricette sociali di Angela Merkel o all’appeal oltreconfine di due suoi colleghi come Michael Bloomberg, il sindaco di New York, e Boris Johnson, primo cittadino di Londra (tanto per citare tre leader internazionali che Renzi ha incontrato personalmente).
E non è un fatto di look o comunicazione, o non soltanto. Il populismo democratico – «putting people first», come recitava il mantra di Clinton, a vantaggio dei «many, not the few» di blairiana memoria – non riguarda solo la mediaticità di una leadership, piuttosto il merito della sua proposta.
L’altro giorno a Brighton, la sorpresa del discorso di Ed Miliband riguardava il congelamento delle tariffe di elettricità e gas fino al 2017, facendone il fronte di una precisa offerta elettorale. Ora, al leader laburista un simile approccio, certo, viene più facile, intanto perchè incarna una cultura più di sinistra all’interno del suo partito rispetto a Renzi.
Nelle sempre più frequenti sottolineature da parte di Renzi sulle disuguaglianze si trova più il suo milieu cattolico che non un rispecchiamento socialista o socialdemocratico, più il numero dell’Economist sui ricchi e i poveri che la Fabian society, più Zingales (e non da oggi) della critica alle storture e le contraddizioni del turbocapitalismo che l’egualitarismo un po’ tetragono di Ed Balls, più Adriano Olivetti che Berlinguer.
D’altra parte, finita nella polvere la belle epoque della finanza creativa, nel kit del candidato democratico, dall’aspirante sindaco di New York, Bill de Blasio, allo stesso Miliband o Renzi, non può più mancare la rampogna e la condanna nei confronti di un capitalismo irresponsabile, del «greed is good» di una impenitente Wall street. Ed se la prende con Rupert Murdoch e con la sua influenza sulla politica, in Inghilterra come in Australia, Matteo magari osserva sovente che Goldman Sachs sta meglio adesso di prima (dove prima significa l’11 settembre di Lehman brothers). E non è solo per togliersi di dosso le accuse su Marchionne o Davide Serra, ma per individuare un fronte polemico, un avversario da contrapporre a quelle biblioteche pubbliche, a quegli asili nido, a quel wifi libero che l’elettore, non solo di sinistra, vorrebbe vedere realizzati.
Il populista democratico riparte dai fondamentali, dunque, ma li ricodifica secondo la sua sensibilità in una nuova koiné, come un aggiornamento delle app; la sua eguaglianza viene dopo l’esplosione della bolla speculativa, il suo concetto di libertà viene dopo papa Francesco e la critica radicale ai ricchi, la sua idea di pubblico dopo il controllo e i Big Data di Google.
Ecco perché restano delusi i detrattori che aspettano Renzi al varco, alla dogana della sinistra. Perché, come Miliband o de Blasio, il sindaco non si farà impallinare sul luogo comune della silhouette del blairismo (anche se poi, una chiacchiera con Peter Mandelson, architetto di quella stagione, se l’è fatta, eccome).
Putting People First, come insisteva il sondaggista di Clinton, Stan Greenberg, oggi in forza a de Blasio. E chissà che non si sia fatto un giretto di recente anche dalle parti dell’Arno.