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 2013  settembre 26 Giovedì calendario

LA SONDA CHE NON VUOLE MORIRE


La sonda interplanetaria Voyager 1 della Nasa, lanciata nel 1977, qualche giorno fa è uscita dal Sistema solare. O meglio, dall’enorme bolla di particelle e radiazioni che circonda il Sole e tutti i pianeti e che ha un diametro di una ventina di miliardi di chilometri, quasi 200 volte la distanza Terra-Sole. Un evento epocale: è il primo oggetto costruito dall’uomo ad avere superato questi confini. Per la sonda è stata una cosa improvvisa, come per un sommergibile venire a galla o come per un satellite uscire dalla atmosfera. Anzi no, al contrario, perché (sorpresa!) lo spazio fuori dal Sistema solare sembra più denso di quello dentro. La notizia più importante, però, è che Voyager 1 non è un oggetto inerte in viaggio nel buio, ma è ancora vivo, capace di mandarci segnali.
Che una sua sonda funzionasse benissimo 36 anni dopo il lancio, a quasi 20 miliardi di chilometri da casa, la Nasa certo non se lo aspettava. E, al momento di preparare i bilanci annuali di previsione, per molto tempo i capi si erano chiesti se valesse la pena utilizzare una parte delle risorse del suo risicato programma scientifico per continuare a gestire questo vecchietto spaziale, il cui unico merito era di andare sempre più lontano e continuare a raccontare, a suo modo, quello che vedeva. Ora però tutti sono felici, perché Voyager 1 è diventato una bandiera per la Nasa (che, quando vuole, i satelliti li sa fare) e per l’umanità. Ha davvero fatto cadere una barriera dell’esplorazione, ha bucato una sfera, quella intorno alla nostra stella, per portarci in quella delle stelle vicine, più lontana e tutta da scoprire. È un risultato di Homo sapiens esploratore paragonabile all’ultimo viaggio di Magellano o alla prima impronta sulla Luna. Siamo diventati, di colpo, Homo sapiens sidereus: la prossima fermata sarà la stella più vicina.

Ci vorrà tempo, certo. Agli attuali 17 chilometri al secondo, Voyager 1 ci metterà 300 anni solo per passare la nube di comete che circonda il Sistema solare, e altri 40 mila per arrivare alla prima stella. La sonda sarà morta molto prima, ma continuerà a portare a bordo un disco d’oro con incise le caratteristiche della Terra. Se ET lo trovasse e lo sapesse suonare, sentirebbe il rumore del fruscio del vento e quello dell’eruzione di un vulcano, la Quinta sinfonia di Ludwig van Beethoven e il pianto di un neonato. Un affresco dell’umanità voluto da Carl Sagan, il grande scienziato e scrittore che fu dietro al programma di esplorazione della Nasa fin dagli anni 60.
Voyager fu pensato, allora, con una tecnologia che oggi sembra patetica. Ne furono costruiti due esemplari, partiti a pochi giorni uno dall’altro nel settembre 1977, con l’idea di arrivare almeno a Giove e Saturno in cinque anni e poi, con un po’ di fortuna, andare a esplorare gli altri giganti gassosi: Urano e Nettuno. Di più non si osava sperare: il computer di bordo ha una velocità e una memoria che sono meno di 1 milionesimo di quelle del più semplice smartphone con il quale giocano i nostri ragazzi. Per raccogliere i dati, l’ultimo grido della tecnologia dell’epoca: un registratore meccanico a nastro con otto piste, da riavvolgere fisicamente ogni sei mesi per ricominciare da capo, completo di speciale grasso lubrificatore spaziale (inventato lì per lì... ma va avanti da 36 anni).
Per trasmettere i dati a Terra, una antenna da 4 metri e un’alimentazione a energia nucleare, basata su qualche chilo di plutonio 238, che decade in 80 anni. Alla partenza forniva quasi mezzo kilowatt, ora siamo alla metà: l’equivalente del consumo di qualche lampadina per tener viva tutta la missione e mandare i dati. A terra però ci vuole tutta la capacità di una delle più grandi stazioni di ascolto della Nasa, con antenne da decine di metri dedicate, quattro ore al giorno, a pescare il debolissimo segnale dal fondo del cielo.
Dopo aver visitato negli anni 80 i grandi pianeti, Voyager 1 va verso l’esterno. Nel 1990 venne fatto voltare indietro per prendere una immagine della Terra. Mai ripreso da così lontano, il nostro pianeta è commovente: un «pale blue dot», un puntino azzurro pallido nell’infinito. Sarà l’ultima immagine: la telecamera viene spenta per risparmiare energia. Nel 1998 Voyager 1 diventa l’oggetto umano più lontano dalla Terra: supera il gemello Voyager 2 e altre due sonde, le Pioneer, partite qualche anno prima, ma più lente e mute da tempo.
Infine, pochi giorni fa, la notizia bomba: il contatore di raggi cosmici, strumento ancora acceso sul Voyager 1, mostra una impennata nei conteggi: siamo usciti dalla bolla protettiva del Sole: per la prima volta una sonda misura l’ambiente fra una stella e l’altra. Ma il 77enne Ed Stone, da 40 anni a capo della missione, non è sicuro di ricordarsi bene come si leggono i dati inviati dall’incredibile registratore a nastro. Un’affannosa ricerca gli fa scoprire un arzillo 80enne, ingegnere in pensione, che aveva progettato l’oggetto. Strappato dal campo da golf, si siede davanti agli strumenti. Scrive il codice giusto per interpretare i dati. Li guarda e dice semplicemente: «Vero, siamo fuori, in mezzo alle stelle».

Voyager 1 è in cima a mezzo secolo di esplorazione spaziale, che possiamo immaginare a sfere concentriche (come nel mio libro Il mistero delle sette sfere): più di 6 mila satelliti intorno alla Terra, circa 100 sonde nella sfera lunare (1.000 volte più lontana), 50 oggetti nella sfera di Marte (ancora 1.000 volte più lontana), 14 oltre Marte, 4 sonde al di là della sfera che racchiude i pianeti e una sola, il Voyager 1, nella sfera delle stelle vicine. È una dimensione ancora tutta da capire: chissà cosa vuol dire, per esempio, che ci sono più particelle del previsto. Ma senza sorprese non c’è scienza. Voyager 1 vivrà, speriamo, quanto il suo plutonio, fino al 2025. Anche muto, niente lo fermerà, se non un urto estremamente improbabile. Potrebbe essere ancora in giro tra 5 miliardi di anni, quando la Terra sarà inghiottita dal Sole morente. Voyager 1 e i pochi suoi «colleghi» saranno l’unica testimonianza che l’Homo sapiens sidereus sia mai esistito.

Giovanni Bignami*
* astrofisico e presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica