Imma Vitelli, Vanity Fair 25/9/2013, 25 settembre 2013
CI SONO MOMENTI, IN UN VIAGGIO, CHE TI ENTRANO DENTRO. PROVI
a scacciarli, ma ritornano, sempre. Mi trovavo a Zaatari, in Giordania, giù al confine con la Siria, diretta al matrimonio di Olla, quando scorgevo una cinquantina di donne in attesa di un autobus per l’inferno. Era una scena epica: l’immagine di un popolo che abbraccia il proprio fato e ritorna. Le signore erano di diversa età ed estrazione, impettite, profumate, truccate: pronte all’ora fatale, in preda a un’ira tremenda. Era ormai ufficiale. Nessuna armata occidentale le avrebbe salvate dal loro tormento; e con questa consapevolezza s’apprestavano a tornare in Siria, nella provincia di Deraa, a una dieta quotidiana di bombe.
«Obama e Assad sono due bugiardi», diceva una nonna fiera, Umm Ahmed. «La morte è meglio di questa agonia», spiegava Rim Hariri, una ragazza sui venti. «Andiamo incontro al nostro destino di guerra».
ZAATARI È UNA CITTÀ SIRIANA FUORI DALLA SIRIA; in realtà, con i suoi 120 mila siriani, è la quarta città della Giordania, un miraggio nel deserto di casupole di lamiera e bambini scalzi che spingono carretti sulla via principale che hanno chiamato Avenue des Champs-Élysées.
C’è soltanto un campo più grande di questo: Dadaab, in Kenya, gremito di profughi somali. È con questa prospettiva di odissea epocale, che ora fanno i conti i siriani.
Non c’è, oggi, sul pianeta, una crisi uguale.
Sono passati trenta mesi dall’inizio dell’incendio che ha distrutto le città principali. Ci sono mappe, su Google, che le guardi e ti si stringe il cuore: quartieri, villaggi, paesi, città ridotti a pozzi neri di fantasmi morti. In Siria, vivevano 22 milioni di persone. Oggi sei milioni sono profughi o sfollati: fatte le dovute proporzioni è come se l’Italia avesse 17 milioni di rifugiati e Palazzo Chigi dichiarasse di essere impegnato in una guerra ai «terroristi».
Di questo parliamo, quando parliamo di Siria. Di questo parliamo quando parliamo di Zaatari: una pianta secca e triste sul davanzale dell’abisso. Una pianta, tuttavia, viva: poiché se c’è una cosa che ho imparato, in questi anni in Medio Oriente, è che non c’è niente come l’amore quando la fine è una compagna fedele.
HO CONOSCIUTO OLLA, LA SPOSA, il giorno in cui il segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, discutevano a Ginevra di un piano per distruggere le armi chimiche del raìs Bashar Assad.
Ero davanti a una bottega curiosa: Sura Hilwah. Marwan Ghoslan, il proprietario, aveva comprato due computer e una fotocopiatrice, e aveva aperto il negozio sugli Champs-Élysées cercando di rimediare qualche soldo. Al suo status di profugo, sfuggiva con una foto, sul muro di latta, che lo ritraeva elegante, in cravatta, placido e fiero su uno sfondo di mare.
«Fammi capire», chiedeva pacato. «Barack Obama sta trattando con il Paese che dà ad Assad le armi per ucciderci (la Russia, ndr) un modo per non ucciderci con il gas?».
Non dicevo niente, che potevo dire? Chiedevo piuttosto del negozio più avanti. Avevo visto gli abiti bianchi da sposa, con dei lucciconi esagerati, e mi ero incuriosita. Una dottoressa di Medici senza Frontiere mi aveva detto che c’erano 5.000 donne incinte, nel campo. Un alto rappresentante dell’Unicef, Michele Servadio, mi aveva spiegato che il 55% della popolazione era femminile, e una simile percentuale era di minorenni. Nel campo, dunque, c’erano soprattutto donne e bambini. I maschi erano «dentro», a combattere, e venivano «fuori», a trovare le famiglie o a prender moglie.
«Gli affari vanno alla grande», era il commento di Amira Hariri, la proprietaria del negozio Sposa favolosa. Era un bugigattolo due metri per tre con tre manichini e 15 abiti da sposa, pallido ricordo della sua gloriosa attività a Sahwara, oltre confine, a Est di Deraa.
Ma «darabu, darabu, darabu, dice scuotendo una mano: «Ci bombardavano, ci bombardavano, ci bombardavano». E allora con la famiglia, e l’anziano padre, si sono uniti alla dolente folla di Zaatari. Apre un quaderno, controlla i numeri. «Nel mese di agosto, ho avuto 25 spose», dice. «Domani tocca a Olla e Majdi».
OLLA E MAJDI, DOMANI SPOSI, sono di Ghouta. Avete presente? Ghouta è la periferia a Sud e a Est della capitale, una collana di verdi villaggi alle porte di Damasco. Da Ghouta passa la strada per l’aeroporto; a Ghouta arrivano le armi che dal Sud raggiungono la principale linea del fuoco, il fronte raqam wahed, numero uno, della guerra civile siriana. Su Ghouta sono piovuti, il 21 agosto scorso, i gas che hanno sterminato, nel sonno, centinaia di persone e provocato i mufawadat, le trattative, tra russi e americani.
Di Ghouta è lo sposo, Majdi Houri, un ragazzo esile e ricciuto, di 23 anni, che in un’altra vita, faceva l’imbianchino. Quando gli stringo la mano, penso che sembra un bambino cresciuto troppo in fretta. Ha perso un fratello di 19 anni; pregava all’alba in un edificio centrato dai jet dell’aeronautica. I suoi occhi mi ricordano quelli di un condannato a morte quando vede da lontano la sagoma della forca. Domani si sposa.
Gli amici del campo gli spiaccicheranno addosso delle uova tra urla e schiamazzi e gli faranno un bagno di fango in una pozza e lo porteranno in trionfo, sulle spalle, sotto la smorta luce rovente di un paesaggio lunare.
Un vicino, Moussa Malak, gli presterà il suo cubicolo per la prima notte di nozze, e lui è ora qui a contemplare il costo della rivolta. La strada dalla schiavitù alla libertà – ormai è evidente – porta alla morte violenta. La guerra ha già fatto più di 100 mila morti. In Libano, dal 1975 al 1990, c’è stato lo stesso numero di vittime, ma in 15 anni.
Queste cose le sa: «Shoft koll shi», dice, ho visto tutto. In principio, aveva tenuto la testa bassa. Poi il governo ha ucciso un suo amico, a un posto di blocco, e lui si è ritrovato con quindici ragazzi, che sono diventati 800 in due settimane, ad attaccare le postazioni dell’esercito. La sua specialità, dice, è sparare missili terra aria, ha imparato durante i tre anni di servizio militare.
«A marzo ho abbattuto un aereo pieno di armi iraniane».
E come lo sai?
«Abbiamo informatori dentro l’aeroporto di Damasco».
L’aeroporto, dice, lo odiano con tutte le forze poiché è dall’aeroporto che il regime, il nitham, lancia i missili Scud sui villaggi. Le guerre, come tutte le imprese umane, hanno dei cicli; la fase di cui mi parla lo sposo è iniziata a marzo. A Otaybah, uno dei villaggi di Ghouta, una sera, erano in trenta guerriglieri, dentro un palazzo bombardato, sulla linea del fronte.
«Dormivo quando qualcuno ha urlato: gas!», dice.
«Siamo andati di corsa all’ospedale da campo. Abbiamo preso le maschere antigas che abbiamo rubato all’esercito. Siamo ritornati e in uno scantinato abbiamo trovato 15 persone stordite, con le convulsioni, e sei cadaveri».
Questa cosa del gas non era nuova.
«Gli animali morivano di una morte strana», dice Moussa Malak, il vicino, anch’egli di Ghouta. «Ogni tanto facevamo un giro delle case abbandonate e trovavamo uccellini, vacche e agnellini in fin di vita».
«Il nostro cane, Barud, è morto asfissiato, un giorno l’abbiamo trovato con la schiuma alla bocca, stecchito», dice lo sposo.
«C’è una zona, a Sud, nell’Hawran, chiamata Awamid. Il regime era in centro e i nostri fuori, in periferia. Il regime ha usato il sarin per attaccare le nostre trincee ma il vento soffiava nella loro direzione e sono morti soffocati un sacco di soldati. Questo succedeva a giugno. L’attacco del 21 agosto era nell’aria».
Moussa Malak racconta una fuga agghiacciante, una marcia di 30 chilometri a piedi con la moglie incinta e tre bimbi piccoli e infine un contrabbandiere che li porta al confine su un camion che viene preso di mira da un caccia.
«Dentro ho lasciato la mia vecchia madre, sei sorelle e tre fratelli mujaheddin. Il 21 agosto, mia sorella Khulud, di 25 anni, e la figlia Asma, di cinque, erano a casa a Jobar, con il marito. Il giorno dopo ho ricevuto la telefonata di un compagno dell’Esercito libero. Mi ha detto che sono morti tutti avvelenati dai gas chimici. Non so dove li hanno sepolti, credo in una fossa comune. A mia madre non ho detto niente».
IL GIORNO DEL MATRIMONIO è un venerdì di sole accecante, e sull’Avenue des Champs-Élysées, nella bottega di Amira, Olla siede sperduta, le mani ricamate di henne, il volto coperto da una cortina di trucco.
L’aria odora di lacca, in quantità da bucare l’ozono, e fuori, da una delle 50 moschee del campo, echeggia la chiamata del muezzin alla preghiera.
È un richiamo struggente. In un tendone bianco, basso e caldo pregano centinaia di uomini, stremati. Si chinano assorti in preghiera, e un imam, vecchio e cieco, intona il loro dolore.
«Non siate deboli», invoca il vecchio.
«Dio ci aiuterà contro Bashar. Lui vede le lacrime delle madri che hanno perso i figli. Credetegli. L’Occidente non ci aiuterà. O Dio, aiutaci. Distruggi Assad e i suoi sostenitori. Non vedi il nostro dolore? O Dio, aiutaci. Non vedi quanto siamo soli?».
Alla fine del sermone, attendo l’anziano sheikh, Mohammad Sherif. Ha gli occhi coperti da un velo e la testa canuta; si muove a fatica tra ali di profughi. Sui volti dei fedeli leggo rabbia e dolore e stanchezza e abbandono.
«Nel nostro cuore abbiamo due odi: uno per il governo che ci uccide, l’altro per chi assiste al massacro senza muovere un dito», dice l’imam. «La Siria è un mattatoio. Oggi abbiamo 100 mila morti. Quanti ancora? È una vergogna per l’Europa e per l’America. Del nostro sangue non vi importa nulla».
È UN REFRAIN CHE HO SENTITO SPESSO, a Zaatari. Il giorno delle nozze, in attesa che Olla finisse di farsi bella, ho preso un tè con un paio di mujaheddin in vacanza dalla guerra. Il confine tra la Giordania e la Siria è lungo 360 chilometri; l’armata libera siriana dice di controllarne cento. A differenza del fronte settentrionale, alla frontiera con la Turchia, con la sua litania di infiltrazioni estremiste, la trincea meridionale è un altro mondo. La Giordania del re Abdullah ha fatto di tutto per sigillare el hudud, il confine, e c’è riuscita. Non ci sono rapimenti a Sud, e anche la malavita è sotto controllo. L’opposizione, mi dice Abu Nadim, un agricoltore oggi combattente, ha guadagnato 35 chilometri a Est e a Ovest di Deraa, il capoluogo di provincia. Sul territorio ci sono le varie brigate ribelli, ma l’aviazione del regime – darabu, darabu – bombarda tutti i giorni.
Abu Nadim avrà cinquant’anni, e la serietà di un uomo consapevole che il resto della sua vita la trascorrerà in battaglia. «Non abbiamo altra scelta», dice. Sbandiera una sottile striscia di carta velina rossa, e dice: «Questa la linea rossa di Obama».
Sto per andar via, quando la nostra ospite, moglie di Abu Nadim, mi ferma. Ha qualcosa da farmi vedere.
Mi chiede: «Sei forte?».
Mi mostra un video che hanno ricevuto tutti dal ministero delle Telecomunicazioni. Per dirla meglio. Il governo ti manda un sms, ci clicchi sopra, e sullo schermo vedi due ragazzi seduti per terra, terrorizzati, e un soldato dell’esercito regolare con una motosega che taglia la gola a un prigioniero e il sangue schizza e poi già che c’è gli fa anche il petto a fettine.
La donna mi guarda, ora.
Il suo sguardo dice: hai capito, ora?
NELLA BOTTEGA DI AMIRA, Olla è pronta. Olla è una ragazzina con il faccino pulito e il velo marrone; ha 17 anni, ed è timida, timida.
Dice che è brutta la vita al campo. Fa caldo, i bagni sono pubblici, le cucine sporche, e deve camminare nel deserto sotto un sole crudele per andare ovunque.
«Mi manca casa nostra. Mi manca l’odore degli alberi d’ulivo. Quando torno, pregherò Dio venti volte».
Olla ha perso un fratello; mostra la sua foto; dallo schermo del cellulare sorride un ragazzo giovane e bello. Olla ha perso anche un cugino e uno zio e suo padre è rimasto a Ghouta a combattere, «in nome di nostro figlio», mi dice la madre di Olla, Khawlah.
Khawlah è una roccia: piccola e scura. Mi colpisce il pensiero che sia madre di una sposa, moglie di un partigiano, madre di un martire. Le chiedo come sia morto il figlio. «A Jaramana, a Damasco, c’era questo posto di blocco. I ragazzi lo odiavano. Se avevi la carta d’identità di Ghouta ti sparavano a vista. Allora l’hanno attaccato, e l’hanno espugnato, ma Hosam è morto con un proiettile in testa». Lo dice con calma, non leggo emozioni sul suo volto. Credo che abbia imparato a celare la propria anima dietro una maschera.
A Zaatari, è lei la capofamiglia, un ruolo desueto per una donna araba, consueto per una donna in guerra.
Nel «caravan», il prefabbricato, non c’è niente, a parte una vecchia Tv, e un ventilatore, e un cartone di cibo: la razione dell’Onu. Ci sono ceci e fagioli e lenticchie e anche riso e tè e zucchero, «ma abbiamo bisogno anche di verdure, e allora lavoro alla giornata nei poderi qua intorno. Sarebbe vietato, ma come si fa?».
Olla dice che non era così che se l’era immaginato il suo momento. Sognava fiori e riso e le amiche e il papà e il fratello. Sognava una torta, che non avrà, e una casa, con la sua camera da letto. Il suo sposo, Majdi, l’ha conosciuto al campo.
«Lui mi piace», dice.
Cosa? «Kollo», tutto.
Tipo? «Il modo in cui mi tratta. È dolce». La madre le aggiusta il velo, e fruga nel cellulare. Ieri il fidanzato era fuori e le ha mandato un sms.
Buona sera habibi. Un giorno senza di te è lungo un anno.
Quando torni?
Mi manchi.
Ti amo tanto, walla, veramente.
Olla dice che ha paura di tante cose. Che lui non trovi lavoro, o che l’amore appassisca nel deserto di Zaatari.
Lui le ha detto che vuole ritornare dentro, a combattere.
«Gli ho detto sarò tua moglie e avremo presto dei figli, non te lo permetterò».
Lui non ha detto niente. Lei ha insistito: «O andiamo insieme o niente».
«È così», dice la madre. «Sono contraria ai combattenti che si sposano e poi vanno dentro. Se sei un mujahed, sei un mujahed. Non metti al mondo degli orfani».
NON HO MAI CAPITO LA PASSIONE delle arabe per i chili di fard, ma loro ci vanno pazze. Il volto della sposa pare una tavolozza di un artista impressionista; ma è uno spettacolo solo per le donne, e per lo sposo, poiché i matrimoni siriani sono un affare segregato, le donne in un caravan, gli uomini in un altro.
C’è solo un momento in cui i consorti – lui splendido e sottile dentro un completo nero, lei un fantasma sotto un cappuccio bianco – appaiono nel deserto, sotto il sole, insieme: è quando lei arriva al suo prefabbricato dentro una Toyota dell’Agcnzia dell’Onu. Lui avanza verso l’auto sulle spalle di un amico, compagno e combattente, e per un attimo è l’eroe di Zaatari. Lei scende timida e triste, e sorride solo quando le donne ululano: Hawiya! Una specie di hurra degli arabi. Trascorrerà il resto del tempo nel cubicolo della madre, a battere le mani, con la musica a palla trasmessa dalla Tv Mori, negli occhi il riflesso dei suoi terrori.