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 2013  settembre 26 Giovedì calendario

Mercoledì 25 settembre è iniziata alle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera la discussione del decreto legge contro il femminicidio, con 414 emendamenti presentati per modificarne il testo

Mercoledì 25 settembre è iniziata alle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera la discussione del decreto legge contro il femminicidio, con 414 emendamenti presentati per modificarne il testo. L’ufficio di presidenza congiunto delle due commissioni ha deciso all’unanimità – visto la quantità di proposte di modifica da esaminare – di chiedere il rinvio della discussione in aula, prevista per oggi a mercoledì 2 ottobre. Il rinvio è stato accettato. Il decreto legge era stato approvato lo scorso 8 agosto dal Consiglio dei ministri: la conversione in legge deve avvenire entro il 15 ottobre. Il ritardo di questi giorni potrebbe metterne a rischio la conversione: dopo l’eventuale approvazione alla Camera, al Senato rimarrebbero infatti pochissimi giorni utili per fare lo stesso. I ritardi si devono ad alcuni nodi del decreto legge e alcuni punti criticati, che sono ancora oggetto di discussione. Il testo della legge – «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province» – è diviso in quattro parti. Solo la prima si occupa di femminicidio, mentre le altre contengono norme che con il femminicidio non hanno nulla a che fare: norme in materia di sicurezza per lo sviluppo, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, per la prevenzione e il contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale, norme in tema di protezione civile e di commissariamento delle Province. La maggior parte degli emendamenti presentati da una parte del PD, da SEL e dal M5S chiedono una modifica radicale del decreto legge, per rendere conforme il testo – giudicato frettoloso e figlio dell’emergenza – alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come “Convenzione di Istanbul”, ratificata lo scorso giugno. Gli articoli del decreto legge su cui si concentrano le richieste di modifica sono l’articolo 1 e l’articolo 2: il primo mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale, il secondo introduce varie modifiche al codice, in particolare riguardo i procedimenti penali per maltrattamenti. Le critiche al decreto legge Una delle principali critiche rivolte al decreto legge è l’inserimento delle normative che riguardano la violenza contro le donne nel pacchetto sicurezza. Il M5S ha presentato la richiesta di soppressione del Capo I, di tutto quello cioè che riguarda la violenza contro le donne, non accettando l’inserimento del femminicidio in un contesto “securitario”. Gran parte dei restanti emendamenti cercano di fare entrare in aula quanto le associazioni, i centri antiviolenza e i comitati che si occupano di violenze contro le donne hanno osservato dopo l’approvazione iniziale del testo. L’avvocato Barbara Spinelli – non la scrittrice ed editorialista della Stampa: un’omonima esperta di violenze contro le donne e consulente dell’ONU in materia – ha redatto un documento in cui vengono riassunti i punti critici del decreto, definito repressivo e “paternalista”. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Letta, ha enfatizzato che il decreto legge costituisce la realizzazione della “promessa” dell’esecutivo di intervenire in materia di violenza sulle donne. Nella conferenza stampa ha dichiarato: “Avevamo promesso intervento duro a contrasto di tutto ciò che va sotto il nome di femminicidio, la promessa ora è mantenuta. Il cuore del decreto è questo, vogliamo dare un segno fortissimo di cambiamento radicale sul tema, un chiarissimo segnale di lotta senza quartiere”. In realtà questo decreto legge, più che un “segno fortissimo di cambiamento radicale” nell’approccio al tema, costituisce la riconferma di una prassi malsana, quella di trattare la violenza maschile sulle donne in termini di “emergenza”, e quindi di includere nell’ennesimo pacchetto sicurezza misure “urgenti” di contrasto non tanto al fenomeno criminale in sé quanto all’allarme sociale che esso procura. (…) Nell’analisi tecnico-normativa accompagnatoria del disegno di legge di conversione, si dice con chiarezza che i reati considerati destano particolare allarme sociale “per il fatto di essere perpetrato ai danni di soggetti “deboli”. L’individuazione della donna, alla pari di minori e disabili, come “soggetto debole”, legittima e giustifica l’adozione di politiche “protezionistiche” da parte dello Stato, nell’ottica che la tutela si debba garantire attraverso il controllo. Al contrario, le Convenzioni internazionali e regionali in materia di diritti umani delle donne ratificate dall’Italia, impongono di non considerare le donne vittime di violenza soggetti deboli, ma soggetti vulnerabilizzati dalla violenza subita. Questa lettura della violenza maschile sulle donne (…) modifica il contenuto dell’obbligo dello Stato: non un obbligo di tutela, come erroneamente e in mala fede per anni interpretato dal legislatore, ma un obbligo di rimozione degli ostacoli esistenti per l’effettivo godimento, da parte delle donne, dei loro diritti fondamentali. Il punto più discusso del decreto è quello relativo all’irrevocabiità della querela: prevede cioè che una volta presentata una denuncia questa non possa più essere ritirata, in modo da sottrarre la donna al rischio di nuove intimidazioni. Secondo le critiche, così facendo se da una parte si evita il rischio che la donna ritiri la querela in seguito alle minacce, dall’altro si limita la libertà della donna stessa rendendola un oggetto da tutelare contro la sua libera soggettività. Chi sceglie di non denunciare o di ritirare la denuncia, spiega Barbara Spinelli, «lo fa perché non si sente adeguatamente tutelata e sostenuta nell’accesso alla giustizia». Secondo le critiche, inoltre, il decreto non si occupa di prevenzione, scuola, formazione degli educatori, libri di testo delle elementari, educazione al genere, all’affettività, alla sessualità. Non parla di centri antiviolenza, della loro moltiplicazione e di un loro finanziamento. Non parla di una proposta terapeutica per stalker, molestatori e violenti, eventualmente alternativa o da affiancarsi alla carcerazione o alle misure cautelari non detentive: le associazioni insistono sul fatto che il contesto in cui avviene la gran parte dei femminicidi è conseguenza dell’abbandono da parte della donna e la conseguente incapacità di gestire e elaborare la perdita da parte dell’uomo. Il testo, poi, non affronta la questione di un osservatorio che monitori i femminicidi, i cui numeri si sono basati finora su fonti giornalistiche o statistiche dell’ISTAT ritenute incomplete e generiche.