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 2013  settembre 26 Giovedì calendario

PRODI E D’ALEMA: I TERMINATOR ORA FANNO GLI GNORRI


Ora c’è la prova provata. Prima Massimo D’Alema e poi Romano Prodi brigando con le privatizzazioni e con Telecom in particolare hanno distrutto la ricchezza del Paese. C’è qualcuno che ricorda quando D’Alema allora a capo della merchant bank di Palazzo Chigi cedeva l’industria pubblica agli amici degli amici? Oggi il leader Maximo si difende: «Fu Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro, a gestire l’operazione che comunque si rivelò giusta. E poi che senso ha guardare a quindici anni fa quando Telecom ha conosciuto in questo frattempo tante vicende?». E allora diamo un’occhiatina più prossima. Arriviamo al 2006 quando Romano Prodi dovette fronteggiare il caso del suo consigliere economico Angelo Rovati che voleva fare lo spezzatino di Telecom, quando si avvertì che le privatizzazioni erano fatte per avvantaggiare alcuni gruppi vicini. Oggi Prodi rivendica la giustezza delle operazioni su Telecom, ma giova ricordargli che alla Camera nel 2006 disse: «Mai Telecom in mani straniere». Ora si sa come è andata finire. E proprio ad Enrico Letta è toccato ammettere che «Telecom non è stata la migliore delle privatizzazioni». Grazie!
Ora ci si chiede: che fine hanno fatto i soldi delle “svendite”? E perché chi ha comprato prima da D’Alema e poi da Prodi ha sempre venduto agli stranieri? Facciamo un passo indietro per capire come la faccenda Telecom sia in realtà la spia della sistematica distruzione occupazione del potere economico che la sinistra ha operato in Italia portandoci sull’orlo del baratro. L’ultima intervista da potente capo della Stet, Ernesto Pascale – era il ’97 – la concesse a me che stavo a Repubblica. Me lo ricordo ancora quel colloquio in Corso d’Italia a due passi dal “Cremlino sindacale”la sede della Cgil. Sapeva Ernesto Pascale che Romano Prodi tornato all’Iri lo avrebbe fatto fuori. E mi confidò: «Non mi dipinga come un boiardo anche se scrive per il giornale di De Benedetti. Io nelle telecomunicazioni ho speso tutta la mia vita e so che bisogna programmare a lungo. Gli errori che si compiono oggi si vedranno tra dieci anni». Pascale che aveva fatto sbarcare la Stet in America Latina, che aveva insistito per il cablaggio, che aveva trasformato con Tim la modesta Sip in un big player, era reduce da una battaglia durissima contro Omnitel. La pagò con l’estromissione. A me Ernesto Pascale, morto nel 2005, ha sempre ricordato un po’ Enrico Mattei. Chissà perché questi capitani in Italia vengono tutti fatti fuori. Ammazzato Mattei, suicidato Raul Gardini, assassinato politicamente Pascale. E il risultato qual è? Dall’abdicazione di Pascale, sono passati 16 anni. Ha sbagliato di un lustro perché gli errori fatti allora portano oggi Telecom in dote agli spagnoli. A un paese che in apparenza è più debole di noi. Ma non è così. La Spagna dopo un triennio di lacrime e sangue imposto dalla destra di Rajoy che però ha fatto fortissime iniezioni di prassi liberali nel paese, oggi ci supera in produttività, in densità industriale, nello spread. Non ha, il nostro stock di debito, ma non ha neanche le zavorre politico-sindacali imposte dalla nostra sinistra. Che ci hanno portato in fondo alla classifica di produttività in Europa. Parole di Bruxelles: «L’Italia sta vivendo una vera e propria deindustrializzazione, con l’indice della produzione industriale che ha perso 20 punti percentuali dal 2007».
Tuttavia è lecito porre anche al centrodestra una domanda. Quando sottoporrà a critica il prodismo, il ciampismo, il dalemismo, quando avrà il coraggio di denunciare la spartizione dei beni di Stato? E quando ammetterà la sua più grave colpa: non aver prodotto la rivoluzione liberale di cui il paese aveva ed ha bisogno? Sarà un caso ma nell’Europa che tira, Spagna compresa, governa la destra. Perché delle due l’una: o liberi l’economia oppure ti tieni gli Ernesto Pascale. I boiardi, come si diceva, ma che fanno gli interessi dello Stato. Il tertium che abbiamo sperimentato ci ha condotti qui: con le tasche vuote, il deserto produttivo e i nostri pochi presidi d’eccellenza che stanno per diventare terra di conquista. Del resto la Germania – a cui abbiamo lasciato fare – questo ha in animo: togliere di mezzo il suo unico vero competitor produttivo europeo e cioè l’Italia. Ma cosa ancora deve accadere perché il Paese dica basta, perché si compia la rivoluzione liberale? Al centrodestra la risposta. Prima che anche l’eredità di Luigi Einaudi vada dispersa. Il nostro illuminato e liberale presidente della Repubblica nel 1960 ebbe a scrivere: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi». Ma ora viene il dubbio che decenni di occupazione dello Stato e dell’economia da parte della sinistra abbiano sopito ogni forza. Se il centrodestra se ne accorge ci dia un colpo di telefono.