Dino Pesole, Il Sole 24 Ore 26/9/2013, 26 settembre 2013
INDAGINE SUL DEBITO PUBBLICO, MOLTI COLPEVOLI E NESSUN EROE
Da almeno quindici anni, centro destra e centro sinistra si palleggiano le responsabilità, senza che si riesca fino in fondo a fare chiarezza. A chi va attribuita la "colpa" di aver dissipato il "dividendo" dell’euro, di non aver posto sotto controllo la finanza pubblica riducendo il debito almeno al di sotto del 100% del Pil? Se la via maestra per aggredire la voragine è accrescere il potenziale di crescita dell’economia (non è stato fatto), chi porta il peso delle mancate riforme?
Occorre partire da lontano, dal 1965, quando il nostro debito pubblico, "garantito" negli anni del «boom» da tassi di crescita mai più realizzati, ammonta al 35% del Pil. Quindici anni dopo, siamo al 57,6 per cento. Al lievitare delle spese per le riforme sociali e garantirsi il consenso elettorale non si fece fronte attraverso un pari (politicamente più rischioso) aumento della pressione fiscale. Dal 1960 al 1980 la spesa pubblica passa dal 29 al 42% del Pil (salirà al 53,5% nel 1990), con le entrate che crescono dal 30,9% del 1960 al 36,5% del 1979. Ed ecco il risultato: se il deficit era all’1,1% nel 1969, nel 1970 si raggiunge quota 3,6%, il 10,2% nel 1979. Spese finanziate in disavanzo, cui si aggiungono gli effetti inflattivi dei due shock petroliferi del 1973 e 1979.
Iniziano i fatali anni Ottanta, quando ci giochiamo il nostro futuro, con il debito che raddoppia dal 66,5% del 1982 al 105,2% del 1992. La media nel decennio è stata di 4,4 punti l’anno, drammatico bilancio degli anni dell’«assalto alla diligenza». Ma anche alla cosiddetta «seconda Repubblica», nata dalle ceneri di Tangentopoli, vanno attribuite responsabilità tutt’altro che marginali. Nel 1994 (governi Ciampi e Berlusconi) il debito è al 121,5 per cento. A fasi di contenimento del debito si alternano nuove impennate. Nel 1995 (governo Dini), siamo a quota 121,2%. Leggera discesa l’anno successivo quando a Palazzo Chigi s’insedia Romano Prodi (120,6%), il 118,1% nel 1997 e 114,9% nel 1998 (governi Prodi e D’Alema). La discesa sembra garantita dal consistente avanzo primario realizzato da Carlo Azeglio Ciampi (5,5% del Pil) nel biennio della rincorsa alla moneta unica: 113,7% nel 1999 (governo D’Alema), 109,2% nel 2000 (governi D’Alema e Amato), 108,7% nel 2001 (governi Amato e Berlusconi). Anche nel 2002, 2003 e 2004 (con Berlusconi saldamente alle redini del governo) si registra un calo (105,5%, 104,2% e 103,8%). A quel punto la discesa si interrompe: 105,9% nel 2005 e 107,6% nel 2006. Torna Prodi con Tommaso Padoa-Schioppa all’Economia: nel 2007 il debito è al 104%, poi anche per effetto della crisi la nuova impennata: 105,7% nel 2008. La fragile coalizione che sostiene Prodi va in pezzi, ed ecco la sequenza che ci consegna il successivo governo Berlusconi e nel 2012 il governo Monti: 116% nel 2009, 118,6% nel 2010, 120,1% nel 2011, 127% nel 2012. Il tutto nonostante le tre manovre del 2011, per un totale di oltre 80 miliardi a regime. E ora, stando alla Nota di aggiornamento al Def appena approvata dal governo, il debito viaggia verso il 132,9%, con annessa la quota nazionale dei prestiti Efsf diretti alla Grecia e della capitalizzazione dell’Esm (il fondo salva Stati permanente).
Certo, si potrà obiettare, quando la contrazione del Pil per effetto della drammatica crisi globale raggiunge i picchi del 2009 (-5,1%), la partita con il debito pare persa in partenza. Vero, tuttavia se scorriamo i dati della Banca d’Italia, osserviamo come quel prezioso indicatore (appunto l’avanzo primario), che rappresenta la garanzia di sostenibilità del debito nel medio periodo poiché fotografa il saldo di bilancio al netto della spesa per interessi, sia stato lentamente eroso. Nel 2001 eravamo al 3,1 per cento. Quattro anni dopo il "dividendo" era quasi azzerato (0,2%). Tre punti di Pil (45 miliardi ai valori attuali), andati perduti. Tra il 2006 e il 2008 l’avanzo primario viene ricondotto al 3,4% del Pil, poi la nuova caduta. Nel biennio successivo, con la grande crisi che falcidia redditi e risparmi, il saldo è -0,8 e -0,1%.
La ricostruzione conferma che per risanare i nostri conti pubblici la strada maestra è agire sul denominatore (il Pil), attraverso riforme incisive, forse politicamente "costose" ma fondamentali che vadano a incidere in primis sulla nostra anministrazione pubblica e sulle politiche dell’offerta (liberalizzazioni, riforma vera del mercato del lavoro), in grado di scardinare privilegi e rendite di posizione ormai insostenibili. E poi agire con forza sull’evasione fiscale (120-150 miliardi l’anno), contenere strutturalmente la spesa (siamo al 51,2% del Pil) con tagli selettivi e mirati: precondizioni indispensabili, accanto al ripristino di un consistente avanzo primario, per ridurre una pressione fiscale avviata verso il record del 44,3%, a partire dagli oneri che gravano sul lavoro. E recuperare credibilità e stabilità politica, così da aggredire quegli 80-90 miliardi di interessi passivi che tutti i governi, di qualsivoglia colore politico, sono costretti a recuperare ogni anno sui mercati per finanziare gli oltre 2mila miliardi di debito. Un compito immane, che solo una classe dirigente (politica in primis) all’altezza delle sfide che ci attendono può affrontare. In caso contrario, il destino del Paese rischia di essere compromesso per diversi, altri decenni.