Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 26 Giovedì calendario

MA QUANTO VALE? ALMENO 15 MILIARDI

Centodue milioni di chilometri di cavi e fili: come la distanza che separava un anno fa la Terra dal pianeta Marte. E poi centrali, centraline, ponti radio… Per un valore che potrebbe arrivare, secondo qualche conto, a 15 miliardi di euro. La misteriosa rete di Telecom Italia è questo. Da quando la compagnia è stata privatizzata, tutti quei fili e quelle cabine hanno turbato più di un sonno. A causa loro nel 2006 ci rimise il posto il fund raiser, amico e consigliere dell’ex premier Romano Prodi. Angelo Rovati, si chiamava. Era un ex giocatore di basket diventato imprenditore. Aveva studiato lo scorporo della rete e il suo collocamento in una nuova società da quotare in Borsa, magari con un aiutino statale. Tipo Cassa depositi e prestiti, per capirci. La cosa si seppe mentre Prodi era con il suo staff in visita ufficiale in Cina e fu come se Rovati avesse toccato l’alta tensione. Dovette dimettersi all’istante, mentre il fronte berlusconiano bombardava con i grossi calibri. Lo stesso Cavaliere si dichiarò «allibito», accusando il governo di sinistra di voler «intervenire nelle scelte di società private». Ed esclamò scandalizzato: «Questa è la loro vera natura!».
Siamo certi che a Rovati verrebbe da sorridere ascoltando a distanza di sette anni voci come quella dell’ex ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi, oggi esponente di spicco del Pdl, invocare l’intervento del governo di Enrico Letta per impedire agli spagnoli di acquisire il controllo di Telecom Italia, se possibile utilizzando quella «golden share» per cui siamo già finiti nel mirino di Bruxelles. Purtroppo non potrà farlo: è deceduto qualche mese fa.
E sorriderebbe, siamo sicuri, anche davanti a certe sparacchiate di questi giorni. C’è chi ha tirato in ballo l’interesse nazionale. Chi il valore strategico di Telecom Italia. Chi una faccenda di privacy. Chi l’occupazione. Chi ne fa una questione di sicurezza. Peccato che lo scorporo della rete dal gestore telefonico e la sua collocazione in una società pubblica, operazione cui ha accennato ieri il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi riferendosi ai modelli Terna e Snam, e che in teoria farebbe dissolvere tutte queste argomentazioni, sia un’impresa impossibile.
Qualcuno ipotizza addirittura una legge per costringere Telefonica a mollare cavi e ponti radio. Senza ricordare che una cosa simile era già stata fatta quando la compagnia era in mano a Marco Tronchetti Provera. All’epoca l’Autorità delle comunicazioni deliberò l’esproprio dell’infrastruttura fisica nel caso in cui non fosse stato garantito a tutti gli operatori parità di accesso alla rete. Dicono che il suggeritore fosse l’ex ministro Paolo Gentiloni. Al suo arrivo Franco Bernabè trovò il regalino di questa spada di Damocle sopra la testa. Ma gli bastò un attimo per capire come liberarsene: rendendo operative le condizioni poste dall’Authority. E la faccenda si risolse in un amen.
Non che non ci avesse fatto pure lui un pensierino, allo scorporo della rete. Certo non per questioni di sicurezza, privacy, o chissà che altro. La separazione e l’eventuale cessione doveva servire a ridurre l’astronomico indebitamento della società telefonica causato dalle scalate fatte con i prestiti bancari che sono stati poi riversati sulle spalle dell’azienda. Un cappio che da anni strozza la compagnia, impedendo gli investimenti tecnologici necessari a un Paese che gli esperti internazionali collocano nel Terzo mondo informatico, con una velocità media di download inferiore a quella della Romania.
Il fatto è che la separazione della rete dall’azienda doveva essere fatta 15 anni fa, al momento della privatizzazione. E già allora non sarebbe stato facile. Oggi è complicatissima, tale è l’integrazione tecnologica fra la telefonia fissa e quella mobile. È stato calcolato che ci vorrebbero più di due anni per portare a termine l’operazione. Senza contare che la rete rappresenta il cuore dell’azienda: lì sono impegnati 30 mila dei 55 mila dipendenti di Telecom Italia. E i soldi? Chi metterebbe i soldi? Perché la rete bisognerebbe pagarla. Di sicuro non i 15 miliardi della stima, piuttosto ottimistica, che circola: anche tenendo conto del suo stato di salute non particolarmente brillante. Diciamo fra i sette e i dieci. Ma poi bisognerebbe metterci sopra altri cinque, sei miliardi di investimenti. Dunque, sempre a 15 miliardi o giù di lì si arriva. Il triplo dell’Imu sulla prima casa, e questo basta. Improponibile, anche ammettendo che la Cassa depositi e prestiti possa fare un’operazione tanto assurda: il governo che dice di voler puntare sulle privatizzazioni si ricomprerebbe a caro prezzo un’azienda privatizzata. Ci pensate?
Per non parlare di un piccolo particolare. Come spiegare agli spagnoli che siamo pronti a bloccare Telefonica, visto che il governo di Madrid non ha sollevato nessuna obiezione per l’acquisizione della compagnia elettrica iberica Endesa da parte dell’Enel?