Vera Agosti, Libero 25/9/2013, 25 settembre 2013
JACKSON POLLOCK – L’UOMO CHE SCHIZZAVA RABBIA E LA TRASFORMAVA IN CAPOLAVORI
Quando Jackson Pollock (Cody, Wyoming, 1912- Long Island, 1956), in evidente stato di ebbrezza, si schianta con la sua auto a solo un miglio da casa è l’11 agosto 1956.
Con lui la giovane amante Ruth Kligman e l’amica Edith Metzger. Finisce così una vita trascorsa tra depressione e turbamenti psicologici a casa dell’alcolismo insieme a una fulminante carriera artistica, basata su una ricerca rivoluzionaria. Pollock, infatti, è il padre dell’action painting, la tecnica immortalata nelle fotografie e nei video di Hans Namuth, per cui l’artista getta il colore dall’alto, utilizzando tutto il corpo, direttamente sulla tela distesa sul pavimento, con una gestualità fortemente marcata. É l’azione stessa dell’esecuzione pittorica che diventa arte e non soltanto il prodotto finito, anticipando la body art e le performance. Si assiste al rinnovamento dell’Informale, che in Europa era ancora legato alla pittura su cavalletto. Pollock può essere considerato come il primo artista veramente americano, capace di saldare il debito culturale degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa. Per la prima volta è il Vecchio Continente che guarda a New York per nuovi stimoli e influenze. Ben presto Pollock diventa un’icona vivente: ha sempre una sigaretta in bocca, veste con abiti scuri e pantaloni risvoltati, che immancabilmente si inzuppano di colore durante il processo creativo nel suo studio di Long Island, una sorta di ranch tra i boschi. E’ come se avesse anticipato la moda attuale dei jeans strappati e imbrattati. Si dice che la moglie, la pittrice Lee Krasner, abbia influenzato il suo lavoro e sacrificato per lui la sua carriera personale.
Il Comune di Milano, in collaborazione con il Whitney Museum di New York, gli rende omaggio con la mostra Pollock e gli Irascibili. La Scuola di New York, a cura di Carter E. Foster e Luca Beatrice, dal 25 settembre al 16 febbraio. Il soprannome “gli Irascibili” viene utilizzato dal quotidiano Herald Tribune per identificare i firmatari di una lettera di protesta al presidente del Metropolitan Museum di New York, Roland L. Redmond, che nel 1950 aveva organizzato un mostra di arte contemporanea americana escludendo i nuovi artisti dell’Espressionismo Astratto. La lettera, all’epoca presentata sul New York Times, è il punto di partenza della mostra milanese. Accanto al documento, anche la celebre fotografia di Nina Leen, pubblicata nel gennaio 1951 sulla rivista Life, che riprende 15 dei 18 artisti del gruppo, vestiti da banchieri, tra i quali Pollock e con lui Mark Rothko, Willem de Kooning, Barnett Newman, Robert Motherwell, William Baziotes, Adolph Gottlieb, Ad Reinhardt… di cui sono esposti alcuni capolavori.
Prestito eccezionale dal Whitney Museum per la fragilità della tela e le considerevoli dimensioni (circa 3 metri di lunghezza) è l’opera Number 27 di Pollock, di cui possiamo vedere anche il video di realizzazione girato da Namuth. Un enorme labirinto di linee, dipinto con sgocciolature di olio e smalto nero, rosa, giallo, bianco e pittura di alluminio.
L’esposizione cerca di costruire il percorso dell’Espressionismo Astratto americano, attraverso le opere dei suoi protagonisti, anche con i lavori di Sam Francis, Mark Tobey, Hans Hofmann e Franz Kline. L’America degli anni ‘50 vive il periodo della guerra fredda e del maccartismo, ma è anche un momento di benessere economico. Tra le strade di New York si aggirano Andy Warhol, gli scrittori della beat generation, i nuovi musicisti del jazz e gli sperimentatori cinematografici.
Gli Irascibles sono molto diversi tra loro: alcuni sono immigrati come l’olandese de Kooning, l’armeno Arshile Gorky, l’austriaco Hofmann, il lettone Rothko e partono da fascinazioni differenti, quali le sculture di sabbia e le danze rituali dei nativi americani per Pollock e i Cubisti e i Fauves per Hofmann, eppure tutti intendono la tela come «uno spazio per la libertà di pensiero e di azione dell’individuo». Dagli sgocciolamenti dell’action painting, si passa attraverso la pittografia di Gottlieb, un suo codice stilistico personale, e il Color Field, ovvero campiture cromatiche piatte, dove manca un punto di vista centrale e la tensione è data dai contrasti tonali, per arrivare ai grandi monocromi di Reinhardt, Newman e soprattutto Rothko. In questo caso la pittura si fa lirica e contemplativa. Larghe pennellate di colore, per formare rettangoli luminosi, dove le sfumature quasi “gassose” sono scelte per impressionare lo spettatore (Untitled (Blue, Yellow, Green on Red), 1954).