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 2013  settembre 25 Mercoledì calendario

IL PADRE DELL’INCHIESTA FA NOVANTA (ANNI)


Sergio Zavoli è nato a Ravenna il 21 settembre 1923, ma oggi a Roma i suoi lucidi novant’anni sono celebrati nella maniera più ufficiale dal brindisi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nella sede di quella Rai di cui lo stesso Zavoli è stato presidente dal 1980 al 1986 e di cui dal 2009 è a capo della commissione vigilanza. Il grande giornalista radiotelevisivo è anche forte e caldo scrittore di vita dell’Italia, di vita della sua Romagna e di vita interiore. Ha diretto Il Mattino di Napoli e dal 2004 è senatore della sinistra (il più anziano dei parlamentari eletti). Le sue inchieste nella cronaca anche di guerra e soprattutto nella storia del Paese (basti ricordare La notte della Repubblica sugli anni del terrorismo) sono semplicemente memorabili. Ma per tanti lui è ancora e soprattutto l’inventore e il conduttore del Processo alla tappa , trasmissione televisiva dal 1962 al 1970 ancorata al Giro d’Italia, al tempo in cui anche grazie a Sergio, all’amico Sergio, il ciclismo possedeva strade, piazze e pure cuori e teste di tanta gente del Bel Paese, così bello quando era bello.

Audience e auditel erano parole ottentotte, il calcio dilagava ma non possedeva, il doping era una pratica chimica esercitata soprattutto in Olanda sui cavalli, i ciclisti pedalavano «in dialetto», nel senso che ognuno portava alla gara e poi alla trasmissione di Zavoli odori, voci, colori e magari anche afrori della sua terra, della sua origine di norma paesana. Il Processo (così lo chiamarono subito tutti) occupava il dopotappa in diretta, ma era riempito anche dalle immagini di gara e dalle interviste in corsa, che lo stesso Zavoli (prima cavia Vittorio Adorni) conduceva porgendo il microfono dal finestrino della Fiat 2300 studio mobile, con una diavoleria del Centro Rai di Torino per le registrazioni, un «coso» chiamato ampex.

Il Processo proponeva anzi imponeva i personaggi: il Giro del 1962 venne serenamente vinto dal piemontese Franco Balmamion ma il ciclista più visto e ascoltato fu il tarantolato Vito Taccone, «camoscio d’Abruzzo», guascone/ spaccone, vincitore di volate rocambolesche, attorissimo inventato da Zavoli che aveva lavorato su sue ingenuità e genuinità eruttate in serie. I giornalisti della stampa scritta, gelosi del ciclismo di fantasia ereditato dai predecessori pionieri e cantori, dapprima adottarono la tecnica fallita anni prima con Lascia o raddoppia? di Mike, ignorarlo per farlo morire, ma presto fecero a spintoni per salire sul palco di Zavoli, che distillava gli inviti, sovente collegandosi con i Montanelli, i Biagi e i Brera lontani, sentenzianti, stimolanti, magari critici verso i colleghi sudaticci suiveurs. Chi scrive queste righe opportunisticamente ogni giorno pubblicava sul quotidiano sportivo di Torino un suo Processo al Processo , accettando la sottomissione al video ma sfruttando la cassa di risonanza. Fra tanti ricordi, quello dolente e speciale di quando, a Terracina, il crollo di una vicina tribunetta aveva schiacciato a morte due ragazzine. Pochi sapevano, Zavoli sapeva, ci partecipò la sua angoscia e però disse che l’omaggio era lavorare prima ancora di piangere, e allora avanti con la diretta.

Era bello sul palco palpare dei ciclisti anche l’impaccio, frugarli con domande anche feroci. Zavoli in maglioncino blu anteMarchionne dirigeva e incoraggiava, grande e astuto, mezzo pompiere e mezzo piromane. Un giovane di belle speranze, che di lì a poco avrebbe vinto il Tour de France, un certo Felice Gimondi, riferendo di un momento di bagarre in corsa disse «gran casino», Zavoli censurò pubblicamente la parolaccia che allora evocava proprio il bordello e lo squalificò per alcune udienze.

Il grande Sergio teneva sempre sul palco come convitati di pietra Freud e Hemingway, Pasolini e Calvino, Panzini e Oriani, Saba e Montale, tutti gli servivano per scatenare i Taccone e fare arrossire i Balmamion. Nel 1969 il Processo registrò al mattino le storiche lacrime di Merckx che doveva lasciare la corsa, sotto accusa di doping. Zavoli, che era nato a Rimini come radiocronista di piccolo calcio locale, ma che amava il ciclismo di amore speciale, chiuse col Processo e fece altro, alla Rai tentarono in molti modi di sostituirlo, inventando pietanze nuove o riscaldando la sua minestra, ma il gigante aveva come preschiacciato anche i posteri.