Vittorio Zucconi, la Repubblica 25/9/2013, 25 settembre 2013
IL TALEBANO D’OCCIDENTE
Volevamo esportare la democrazia contro il terrore. Abbiamo esportato il terrore contro la democrazia. Da Boston a Nairobi, da Londra a Kabul, il “blowback”, il ritorno della vampata quando si appiccal’incendio,tornaasmentire l’assunto fondamentale della guerra al terrore come fu propagandata e lanciata dodici anni or sono, che esista una soluzione militare alla metastasi del fanatismo che uccide.
La “internazionale del massacro” che ha fatto strage di innocenti non musulmani nello shopping center di Nairobi è stata la più spaventosa, ma non la prima, dimostrazione che le cellule malate di quella che genericamente, e approssimativamente, è chiamata Al Qaeda sono fra di noi, e crescono in casa. L’illusione che esistesse qualche confine ideale, se non geografico, fra “noi” e “loro”, che potesse bastare, a colpi di invasioni, occupazioni, governi di comodo, attacchi di aerei robot — i droni — lungo il quale combattere crolla quando si scopre che almeno tre degli assassini di Nairobi non venivano dalle valli di Kandahar, dai monti del Caucaso, dalle sabbie dello Yemen, ma addirittura dal Minnesota.
Uno degli Stati più tranquilli, ordinati, un tempo addirittura “scandinavi” per l’abbondanza di immigrati da Svezia a Norvegia della repubblica americana.
Sembra, e forse è soltanto la distorsione ottica del sangue, che la “War on Terror”, la guerra al terrore, sottinteso islamico, abbia fatto più proseliti per il terrorismo in Occidente di quanti abbia convertito alla democrazia nei famigerati “Stati canaglia”. «Da anni sto cercando di mettere in guardia contro la radicalizzazione dei nostri giovani», dice Abdirizal Bihi, uno dei principali leader della comunità somala negli Stati Uniti, proprio in quelle due città gemelle, Minneapolis e St. Paul, da dove sono partiti tre dei massacratori di Nairobi, «ma mi sono sentito condannare come nemico della mia stessa gente, e come anti Islam». Bihi, che ha testimoniato anche davanti al Parlamento e collabora apertamente con lo Fbi, fu scosso dalla scoperta che il nipote si era unito ad Al Shabaab, uno dei pianeti nel sistema di Al Qaeda, pur essendo cresciuto negli Usa e accolto come profugo politico. Buran Hassan riuscì a raggiungere la Somalia dalla quale la famiglia era fuggita. Fu ucciso da una gang rivale.
Nel gergo stenografico dei media e degli studiosi di questa nuova manifestazione del terrore, si chiamano gli home grown terrorist, gli assassini cresciuti in casa, il jihadista della porta accanto. Ci sono 178 gruppi soltanto negli Usa che si considerano affiliati o in sintonia con la guerra all’Occidente e queste sono le cellule catalogate e presumibilmente controllate dai servizi di sicurezza americani, quei servizi che in teoria ascoltano tutto e intercettano tutto, meno, evidentemente, le cose più importanti. La maggior parte di loro sono cittadini delle nazioni nelle quali vivono, con documenti autentici e tutti i diritti che la costituzione e la legge garantiscono, quindi spesso difficili da incriminare e da condannare.
C’è chi indossa addirittura l’uniforme della Us Army, con le insegne da maggiore e una laurea in psichiatria, come Nidal Malik Hasan, che nella base militare di Fort Hood vuotò il caricatore del proprio fucile semiautomatico d’ordinanza sui commilitoni, uccidendone tredici. E ci sono i viaggiatori delle missioni di morte, come i tre ragazzi del Minnesota, che si sono uniti al commando nello shopping center. Quasi tutti, la maggioranza, sono teenager o ragazzi di vent’anni, ai quali Al Shabaab dedica video di reclutamento diffusi naturalmente in Rete e visti milioni di volte. In uno di essi, scaricato sul pc di uno dei tre andati in missione in Kenya, gli autori raccontano la strage a Nairobi come «una vera Disneyland », «un divertimento pazzesco », «fun, fun, fun». Uno spasso.
È un cocktail micidiale di propaganda religiosa, di odio, di ribellione, di autoaffermazione, che punta sul detonatore sempre presente in tanti adolescenti ovunque, la noia. Il “terrorista della porta accanto”, quello che improvvisamente, imprevedibilmente esce dalla banalità della vita quotidiana di bravo ragazzo americano, tutto liceo, feste da ballo, ragazze, partite di football per passare al lato oscuro della forza, non è un profeta alla Bin Laden, e neppure uno “shaid” con vocazione al martirio come le bombe umane di Hezbollah e Hamas. I fratelli Tsarnaev, Tamerlano e Djokar, non avevano nessuna intenzione di sacrificarsi nella detonazione della bombe dentro le pentole a pressione sul traguardo della Maratona di Boston, come dimostrò il vano tentativo di fuga di Djokar.
Proprio ai giovanissimi punta quest’ultimo gruppo che ha conquistato, con il sangue di tante persone a Nairobi, la notorietà che cercava. Al Shabaab significa appunto “gioventù”, giovani che lottano, e cerca militanti in quella che potrebbe essere la seconda generazione di jihadisti violenti, dopo quella degli Atta, degli Al Zarqawi o Al Zawahiri, dei Bin Laden, uccisi o invecchiati nella loro solitudine. Gli spot in Rete non promettono paradisi fra improbabili vergini, assunzioni nei cieli della gloria mistica e rivoluzioni planetarie. Parlano alla inquietudine di ragazzi sospesi fra due mondi, come trapianti incerti di cespugli che vogliono irrobustirsi nella violenza che vedono praticata contro i propri fratelli lontani esentono, con l’acutezza della loro età, il peso di vere o immaginarie ingiustizie. A questa inquietudine, classicamente esistenziale e moltiplicata dal loro sentirsi estranei ovunque, parla l’offerta di una identità globale attraverso l’avventura.
Non ci sono spiegazioni di comodo, sociologiche, economiche, finanziarie, che possano spiegare il viaggio dei tre “Minnesotan” somali verso il mattatoio di Nairobi. Non erano poveri, neppure discriminati, all’interno di una comunità somala che sa promuovere e difendere il suo. Non sono miserabili della Terra quelli che si raccolgono attorno ai ristoranti nei sobborghi di New York, come Hackensack, dove si fermò anche Mohammed Atta verso il suo ultimo viaggio destinazione Boston, e che la polizia sorveglia con strumenti che non possono rivelare quello che si agita nella mente degli avventori. Come non erano reietti dell’umanità gli autori del massacro di Atocha, in Spagna, o di Londra.
Sei mesi dopo le bombe di Boston ancora non è comprensibile che cosa abbia fatto scattare nella mente dei fratelli Tsarnaev, perfetti esempi di integrazione nella american way of life, l’odio mortale per la vita che avevano vissuto e goduto fino a quel momento. Ci sono fanatici commentatori di estrema destra, come Erick Erickson della Fox News che accusano la «secolarizzazione » dell’America», il tradimento dei valori cristiani, che per loro identificano l’Occidente, compiuto dalla sinistra. Il vuoto di valori morali lascia spazio alla predicazione della jihad estremista, che esalta e stordisce come il proverbiale “fiasco di vino a stomaco vuoto” un tempo riferito al marxismo. Ma neppure questa formula politica spiega perché invece la maggioranza dei loro fratelli e famiglie respingano l’ubriacatura della violenza o perché tanta violenza si manifesti, in America come altrove, senza la miccia del fanatismo anti occidentale.
Il “terrorista della porta accanto”, il guerriero vile e violento da esportazione che oggi parte per compiere le proprie ripugnanti imprese come altri si caricano sacchi a pelo per visitare il mondo è forse soltanto il segnale di un’altra, inevitabile globalizzazione, quella del fanatismo assassino, per trovare la propria identità che neppure il benessere può dare. È soltanto una coincidenza, ma proprio a Minneapolis, la città dalla quale sono partiti i tre americani per raggiungere il Kenya, sorge, monumento terrificante e colorato, lo shopping center che per anni fu il più grande del mondo: il Mall of America.