Federico Rampini, la Repubblica 25/9/2013, 25 settembre 2013
IRAN, LA SVOLTA DI OBAMA ALL’ONU “RIPRENDIAMO A PARLARCI” ROHANI: NON SIAMO UNA MINACCIA
La stretta di mano non c’è stata, la svolta storica forse sì. Barack Obama annuncia solennemente al Palazzo di vetro che vuole la ripresa di un dialogo diretto con l’Iran. Non accadeva dal 1979. «Ho dato mandato in questo senso al segretario John Kerry», dice il presidente parlando all’assemblea generale delle Nazioni Unite. «Gli ostacoli potrebbero rivelarsi insormontabili — aggiunge con una nota di prudenza — ma credo fermamente che la strada diplomatica vada tentata». Lo incoraggia poche ore dopo l’intervento del presidente iraniano Hassan Rohani che interpreta la propria elezione come una «preferenza per la moderazione e il dialogo», e promette che l’Iran «non sarà una minaccia per il mondo». È la grande novità di quest’assemblea Onu, l’inizio di un disgelo dopo un’ostilità durata 34 anni. L’ultima volta che un presidente americano ebbe rapporti diretti col suo omologo iraniano: il 31 dicembre 1977, quando Jimmy Carter fu accolto a Teheran in pompa magna dallo Scià di Persia, che coprì di elogi.
Due anni dopo, con lo Scià in fuga e l’ayatollah Khomeini a Teheran, una folla ostile assaltava l’ambasciata americana, prendeva 52 cittadini Usa in ostaggio, dando inizio a una crisi che sarebbe durata 444 giorni. Dopo di allora, l’America è diventata il “grande demone” per i dirigenti della teocrazia iraniana. E l’ex alleato persiano è diventato il fomentatore di ogni terrorismo (Hezbollah in testa) contro gli Usa e i loro alleati come Israele. Quest’assemblea Onu 2013 può dunque passare alla storia come il primo passo verso una normalizzazione.
L’intervento di Obama (lunghissimo, 50 minuti) è quasi monopo-lizzato dal Medio Oriente. In testa l’Iran, al quale l’America offre il linguaggio del rispetto, riconoscendo la legittimità di un piano per l’energia atomica purché non serva a fabbricare bombe. «Siamo incoraggiati — dice Obama — dal fatto che il nuovo presidente Rohani alla sua elezione ha ricevuto dal popolo iraniano un mandato di moderazione ». Resta da «verificare che le azioni corrispondano alle parole». O ai cinguettii su Twitter, che non vengono lesinati dalla nuova leadership iraniana. Prima ancora che Obama prenda la parola, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha twittato le sue attese sull’appuntamento a Palazzo di Vetro: «Abbiamo un’opportunità storica». Zarif, che ha studiato negli Stati Uniti, può essere un uomo-chiave in questa fase: sarà lui a rappresentare l’Iran alla ripresa dei negoziati sul nucleare. È lui che resta in sala ad ascoltare l’intervento di Obama, rompendo con una tradizione per cui la delegazione iraniana abbandonava l’aula.
Sfumano invece le speranze di un incontro a tu per tu fra Obama e Rohani al pranzo offerto dal segretario generale Ban Ki-moon. La Casa Bianca fa sapere che è la delegazione iraniana a non sentirsi ancora abbastanza preparata per lo storico faccia a faccia. In compenso, a sorpresa Rohani si concede un incontro a tu per tu con il presidente francese François Hollande.
La Siria è l’altro tema che domina l’intervento di Obama. Qui il presidente pone una condizione precisa. Il Consiglio di sicurezza deve approvare una risoluzione «forte », che contenga anche la componente della punizione, qualora Assad non mantenga la promessa di consegnare le sue armi chimiche. Obama rivendica il fatto che l’improvvisa speranza di una soluzione diplomatica in Siria, maturata al G20 di San Pietroburgo, è spuntata soltanto dopo che l’America ha minacciato di intervenire con i bombardamenti. «Senza una minaccia militare precisa — dice — il Consiglio di sicurezza non ha dimostrato alcuna intenzione di agire. Se non troviamo un accordo su questo (la risoluzione che includa il castigo per inadempienza, ndr), sarà la prova che le Nazioni Unite sono incapaci di far rispettare la più elementare delle leggi internazionali».
Il quinto intervento di Obama all’assemblea generale Onu è l’occasione per ridefinire il ruolo dell’America nel mondo. Il presidente alterna le autocritiche e l’orgogliosa rivendicazione del carattere «eccezionale » dell’America. Nei passaggi dedicati all’Iran c’è un riconoscimento degli errori di Washington fin dai tempi del golpe contro Mossadeq che portò al potere lo Scià. L’America di Obama oggi si «allontana dallo stato di guerra permanente ». Continua a lavorare per la chiusura di Guantanamo. Promette una revisione del cyber-spionaggio, un equilibrio più rispettoso tra sicurezza nazionale e diritti di privacy, rispondendo alle critiche degli europei e soprattutto dei latinoamericani. Tuttavia Obama ribadisce che il vero pericolo per il mondo sarebbe un’America in ripiegamento su se stessa, tentata dall’isolazionismo. Elenca le circostanze in cui lui sarà ancora disposto a usare la forza delle armi, in particolare nel teatro mediorientale: contro il terrorismo; per difendersi da minacce dirette o rivolte ai propri alleati strategici (leggi, in primis, Israele Turchia e Arabia saudita), nonché per assicurare il regolare flusso di approvvigionamenti petroliferi verso il resto del mondo (sempre meno verso l’America che sta raggiungendo l’autosufficienza energetica). Infine, le armi possono ancora essere l’estrema ratio «per fermare le atrocità, ma l’America non dovrebbe ritrovarsi sola». In ogni caso, aggiungendo alle proprie missioni un accordo Israele-Palestina, quest’America «resterà in Medio Oriente nel lungo periodo».