Giuseppe Oddo, Il Sole 24 Ore 25/9/2013, 25 settembre 2013
DAL «NOCCIOLO DURO» ALLA FINE DELL’ITALIANITÀ
Gli sviluppi del caso Telecom sono il risultato di una privatizzazione attuata dal primo governo Prodi sotto l’incalzare di eventi straordinari che influirono non poco sull’offerta pubblica di vendita del 2007. Prima di essere ceduta in Borsa, Telecom fu infatti "girata" dall’Iri al Tesoro perché il governo potesse rispettare gli obblighi derivanti in sede europea dal patto Andreatta-Van Miert, che costringeva l’azionista-Stato ad abbattere i debiti dell’Istituto di Via Veneto a un livello compatibile con il suo patrimonio netto. Si era nella fase in cui l’ingresso dell’Italia nell’euro suscitava malcontenti in varie parti d’Europa e il mancato rispetto di quel patto avrebbe potuto rinfocloare l’ostracismo verso Roma. Quando, in seguito, fu il momento della privatizzazione, emerse l’altro ostacolo contro cui si scontrarono l’allora ministro del Tesoro Ciampi e il suo direttore generale Draghi: la difficoltà ad individuare un gruppo di imprenditori-azionisti presso cui collocare il "nocciolo duro" del gruppo. Come i fatti s’incaricarono di dimostrare dopo che la Olivetti lanciò la scalata ostile alla Telecom, quel "nocciolo" mancava di qualsiasi coesione ed infatti si sciolse come neve al sole sotto l’Opa di Colaninno. I suoi componenti – tra cui spiccavano le maggiori banche e l’Ifil della famiglia Agnelli – non sapevano niente di telecomunizioni, non avevano saputo scegliere un management che fosse all’altezza del suo compito, salvo nominare in extremis, a fine ’98, Franco Bernabè. Avevano accettato di stare in Telecom più per compiacere il Tesoro che per una motivazione di natura industriale, e appena Colaninnò offrì loro la via di fuga non ebbero alcuna esitazione a tagliare la corda. Anche perché nel frattempo il vento era cambiato, il governo Prodi era caduto, a Palazzo Chigi s’era insediato Massimo D’Alema. E D’Alema aveva manifestato ammirazione per i "capitani coraggiosi" di Ivrea.
A nulla valse il tentativo di resistenza contro gli scalatori organizzato da Bernabè nell’illusione di avere con sé il "nocciolo duro". La battaglia si risolse in una disfatta. Colaninno e i suoi amici della Bell, la scatola lussemburghese che controllava Olivetti, avevano le spalle coperte da personaggi potenti: non solo dal nuovo inquilino di Palazzo Chigi, che aveva fatto scendere in campo come garante nazionale dell’operazione la Mediobanca di Cuccia, ma anche da banche d’affari internazionali come la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, che avevano assicurato agli scalatori le "munizioni" per un’Opa che sarebbe potuta costare, in caso di adesione totalitaria, 100mila miliardi di lire. Alla fine fu sufficiente circa la metà di questa somma; il resto venne dalla cessione di Omnitel (l’attuale Vodafone Italia) a Mannesmann. Ma tanto bastò a caricare la società di una massa schiacciante di debiti.
Colaninno aveva lasciato intendere che per ridurre la pressione debitoria avrebbe avviato un piano di valorizzazione e di dismissione di asset, ma la sua ambizione e i consiglieri di cui si attorniava lo spinsero a intraprendere la strada opposta: quella delle acquisizioni. Il debito lievitò ulteriormente. Lo shopping avvenne su scala mondiale, dal Sud America all’Europa. Per l’acquisizione della Crt da parte di Brasil Telecom, l’operatore di rete fissa partecipato da Telecom Italia, furono spesi 850 milioni di dollari. Vogliamo parlare di Globo.com, il portale della famiglia Marino con appena 65 giorni di vita, per il cui 30% Telecom versò 830 milioni di dollari? E che dire degli 826 milioni di euro spesi per l’Opa sulla francese Jet Multimedia? E come la mettiamo con la Seat? Per acquistarne il 37% Colaninno pagò 6,7 miliardi di euro che finirono a società estero-vestite senza che il ministero delle Finanze muovesse un dito.
Poi, nel 2001, fu Tronchetti Provera a rilevare da Colaninno e soci, tramite la Olimpia, il controllo della Olivetti-Telecom. E qui si apre un nuovo capitolo. Maurizio Matteo Decina, in un saggio per Castelvecchi Editore che andrà in libreria tra qualche settimana, ha calcolato che nel periodo 1999-2007, ovvero dall’Opa del secolo fino al momento dell’ingresso in scena della Telco, la Telecom ha subito nel complesso un drenaggio di risorse pari all’incirca a 24 miliardi di euro: un importo colossale speso per operazioni rivelatesi a dir poco inefficienti. Decina pone in particolare l’accento su due questioni controverse: la cessione del patrimonio immobiliare della Telecom, che era iscritto a bilancio a prezzi storici, a società partecipate da Pirelli Real Estate e l’Opa della stessa Telecom sulle quote di minoranza della Tim per 15 miliardi di euro. Secondo vari esperti, le motivazioni economico-industriali di entrambe le operazioni risultano ancora oggi poco chiare.
Nel 2007, dopo il continuo deprezzamento del titolo Telecom, la Olimpia è costretta a cedere il controllo alla Telco, di cui è socio di minoranza la spagnola Telefonica. La maggioranza fa capo a Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo, nel ruolo di nuovi garanti dell’italianità del gruppo. Bernabè è richiamato alla guida della società, che avrebbe bisogno di un aumento di capitale per abbattere l’annoso debito e rilanciare gli investimenti, puntando su una nuova rete veloce in fibra ottica. Ma nessuno vuol scucire un centesimo. Abbiamo già visto ai tempi del "nocciolo duro" quale e quanto interesse abbiano avuto le banche per le telecomunicazioni. Così oggi Telefonica può di fatto considerarsi come il nuovo padrone della Telco e decidere, salvo colpi di scena, del futuro della Telecom. Quello che avrebbe dovuto essere un campione nazionale rischia di finire come carne in spezzatino.