Edoardo Segantini, Corriere della Sera 25/9/2013, 25 settembre 2013
L’EX CAMPIONE PUBBLICO CHE SOGNÒ DI CONQUISTARE TELEFONICA E VODAFONE
Telecom Italia, il cui controllo viene oggi acquisito da Telefonica, negli anni 90 considerò l’ipotesi di comprarsi il primo operatore spagnolo. E l’allora capo della Tim, Vito Gamberale, progettò di acquistare Vodafone, non ancora il colosso di oggi ma pur sempre una bella azienda, e l’americana Air Touch. La privatizzazione della società, nel 1997, bloccò ogni operazione e i dossier rimasero chiusi nel cassetto.
Questi episodi rendono bene l’idea di quale tremendo capovolgersi di sorte abbia segnato la vita dell’ex monopolio italiano. Che è nato non dal ministero delle Poste come i cugini francese e tedesco, ma dal mercato, cioè dalla progressiva fusione dei quasi cento operatori telefonici attivi in Italia all’inizio del 900. E che è stato segnato da uomini come Guglielmo Reiss Romoli, che negli anni 30 portò nella Stet le più moderne pratiche di governance americana. Una storia che ha selezionato alcuni top manager veri: boiardi, certo, potenti e legati alla politica, ma con un senso autentico dell’azienda, del futuro e del sistema Paese.
Uno di questi era Ernesto Pascale, un Robert Mitchum romano alto quasi due metri, che nel fatale settembre 1995, parlando a un convegno, lancia il “progetto Socrate” per la cablatura generale in fibra ottica delle città italiane. Giocatore di scopone, in quel momento Pascale mette sul tavolo il destino di Telecom Italia e il suo personale: due anni dopo verrà rimosso dal governo Prodi. Contro il progetto si scatenano i sostenitori del libero mercato che accusano la holding Stet e la controllata Telecom Italia di voler occupare tutti gli spazi, bloccando la concorrenza alla vigilia della liberalizzazione che scatterà nel 1998.
Non tutti sostengono posizioni soltanto teoriche, alcuni hanno concreti interessi da difendere. Il vento è dalla loro. In quella fase, del resto, la priorità indiscussa non è come oggi lo sviluppo, l’ammodernamento delle reti, il futuro dell’infrastruttura, ma la competizione. Come fine, non come mezzo. Questo, almeno, accade in Europa perché negli Stati Uniti, dove nel 1996, in era Clinton, viene approvato il Telecom Act, si preferisce lasciare briglie sciolte alle grandi imprese perché possano cogliere le opportunità che la nuova convergenza tra i media (siamo agli albori di Internet) offre loro. Vengono poste così le premesse di un’impostazione regolatoria che creerà norme “asimmetriche” per favorire i nuovi entranti sul mercato e finirà, poi, per sussidiarli.
Il secondo passaggio storico della moderna Telecom (e dei suoi guai) è la privatizzazione, su cui pesa l’urgenza del governo di fare in fretta, per mantenere fede agli impegni presi con l’Europa con il patto Andreatta-Van Miert. Così si fa in pochi mesi ciò che nella liberista Inghilterra ha richiesto anni. D’altronde perché Roma dovrebbe essere meno brava di Londra? Il governo Prodi decide di vendere tutto, di non mantenere una quota significativa come ha fatto con l’Eni, dove ha conservato il 30% del capitale, e dà vita a una struttura di controllo debole — il “nocciolino duro” degli Agnelli — affidando il timone a Gianmario Rossignolo, che ha sostituito Tommasi di Vignano, a sua volta subentrato a Pascale.
Se Telecom Italia sopravvive a Rossignolo può sopravvivere a tutto, è la battuta che circola in azienda. Ma è sbagliata, perché il peggio deve ancora venire. Le speranze suscitate dall’arrivo di Franco Bernabè alla guida dell’azienda vengono traumaticamente spezzate dall’Opa lanciata da Roberto Colaninno, che nel giro di pochi mesi conquista l’azienda con un’operazione brillantissima dal punto di vista finanziario e disastrosa da quello industriale. Un ruolo determinante lo svolge, ancora una volta, la politica: con il governo D’Alema che appoggia apertamente l’Opa e addirittura chiede alla Banca d’Italia (3,5% del capitale) di non partecipare all’assemblea di Torino dove il suo voto contrario potrebbe far fallire l’offerta pubblica di acquisto.
Il declino vero dell’operatore storico italiano comincia lì, quando Telecom viene caricata di un fardello di debiti talmente pesante da comprometterne la crescita, gli investimenti tecnologici e lo sviluppo internazionale. Questo ripiegamento dell’azienda continua durante la gestione di Marco Tronchetti Provera, proprio mentre altri gruppi percorrono il cammino contrario, diventando internazionali. Per fare un solo esempio, un piccolo operatore come il norvegese Telenor oggi si fa spazio nei vasti e dinamici mercati orientali come l’India.
E arriviamo a oggi, dopo sei anni di gestione Bernabè, tornato in sella nel 2007, che, nonostante le disarmonie con gli azionisti, è comunque riuscito a posizionare bene l’azienda in Brasile e a ridurre il debito. Quest’ultimo capitolo — Telefonica-Telecom Italia — va letto, forse ancor più dei precedenti, in una chiave internazionale. Gli operatori telefonici oggi sono stretti nella morsa di margini calanti e crescenti necessità di investimento. Le economie di scala sono una scelta obbligata che li spinge verso il consolidamento.
Nei consolidamenti c’è qualcuno che compra e qualcuno che è comprato. L’amor di patria ci fa desiderare di trovarci nei panni di chi compra (come negli anni 90). Ma da allora in poi troppi errori sono stati commessi: dagli azionisti, dai politici, dai manager, dai regolatori. Meglio comunque essere ottimisti. Telecom ha sopportato scarsa lungimiranza, terapie peggiori dei mali, spoliazioni barbariche. Sopporterà anche gli spagnoli.