Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 24/9/2013, 24 settembre 2013
GIÙ LA TESTA,VINCENZONI
Il genio era ai piedi dei Parioli. Salivi le scale e lo trovavi nei pressi della lampada. La scrivania ordinata, le cartelline ingiallite al ritmo delle sigarette, i copioni, gli amici, i tradimenti, le fotografie. Il passato a battere sul vetro. Ogni giorno. A ogni stagione. Luciano Vincenzoni apriva la finestra e lo faceva entrare volentieri. Del presente gli erano rimaste le amarezze di un forzato oblio: “Non mi chiama più nessuno”, ma se leggeva a ritroso le pagine del libro, ritrovava la fame e la sete, il lusso e gli appartamenti di Beverly Hills, i gangster americani barricati in un albergo romano a 5 stelle, le risse concettuali con Sergio Leone, le fughe d’amore con Ava Gardner, i telegrammi di De Laurentiis: “Appena avuto successo ti dai delle arie-stop-sei introvabile-ti abbraccio-Dino”. Tutta la splendente costellazione lietamente incosciente delle sue molte esistenze, capace di brillare in un racconto orale per immagini nel quale, come in quello scritto, aveva pochissimi rivali. Ora che le sue rabbie improvvise verso l’interlocutore, le bombole per respirare, i cicchetti pomeridiani e l’autonomia di pensiero e movimento, pretesa e conservata fino all’ultimo tra un moccolo e l’altro, virano in dispiacere per un romanzo che mette la parola fine a 87 anni, tutto si potrà dire tranne che il pokerista di Treviso non si fosse giocato l’azzardo del provinciale in trasferta con divertita grandezza. Al cinema, lo sceneggiatore di capolavori come La grande guerra o Per qualche dollaro in più e di altri 70 film di ogni natura, genere e ispirazione possibili, era arrivato quasi per caso. Improvvisando da attore consumato (lo fece anche, contronatura, ne I girovaghi, mandando a fare in culo il regista e prendendo a calci la macchina da presa) per concupire attrici e produttori. Quando Vincenzoni si metteva in scena, impastando un inglese incerto “un misto terribile di francese, veneto e mimica”, le trincee diventavano di cartapesta e anche guerrieri indisposti alla pietà come il presidente della United Artists, Ilya Lopert, diventavano prigionieri nella rete di Luciano. Pietro Germi che gli fu fraterno amico e poi nemico, per una di quelle voci maligne che alimentandosi diventano reali, seppe trovare forza e spirito per riavvicinarsi soltanto a un passo dalla morte.
A CASA di Vincenzoni, dietro una cornice, uno dei pochissimi baffi spioventi che Luciano sopportasse: “La peluria sul volto di un uomo è tollerabile solo in Germi o in Clark Gable” aveva lasciato una didascalia sulla foto. “Come è triste essere soli”. Vincenzoni lo sapeva e ricordando con la stessa passione le sessioni con Age e Furio Scarpelli: “Ho una regola sola, quello che sostiene Furio non lo discuto mai”, gli arresti per un bicchiere di troppo effettuati da zelanti poliziotti americani con il vizio transnazionale del razzismo: “Videro la patente italiana e odiarono in un amen”, gli incontri con Kerouac, Candice Bergen e Silvana Mangano, le condivisioni profonde con Billy Wilder o le lunghe passeggiate con Fellini, evadeva da una grigia contingenza: “Il cinema italiano di oggi somiglia al nulla” e dagli alterchi epistolari con il contemporaneo Tornatore: “Ci siamo scritti lettere durissime di insulti” per ritrovarsi ancora lì. Nei colori dell’altro secolo. Nelle sue storie. Nelle piccole paure universali che legano le epoche: “Un giorno, in via Po, sento una voce da lontano. È Federico che si affanna per raggiungermi. Riesce nell’intento e al-l’improvviso mi fa: ‘Lucianino mio, fumi?’, poi senza aspettare una risposta ovvia, tira fuori una pillola dalla tasca e me la porge. ‘Prendila ogni mattina, previene l’infarto”. Di solito era Luciano Vincenzoni a decidere cosa fare, quando e come agire, ma quella volta diede retta. Disseminando pastiglie nelle giacche custodite nella naftalina e rileggendo il suo scrittore preferito, Céline, prima di addormentarsi: “È forse questo che si cerca attraverso la vita, null’altro che questo, la più grande sofferenza possibile per divenire se stessi prima di morire”.
Luciano Vincenzoni, da silenzioso campione del genere, ne aveva già assorbite molte senza sbandierarle. E in assenza di divinità credibili, non cercava altari, pretesti, scuse o rimpianti per ravvivarne ancora. I signori sorridono. Tutti gli altri, si lamentano.