Giovanni N. Ciullo, D la Repubblica 21/11/2012, 21 novembre 2012
L’IMPERO DEI SAMSUNG
Far l’acciuga in barile, indolente e indistinguibile dalle altre, non è mai stata la vocazione di Samsung. E si fatica a credere che il leader mondiale degli smartphone-business da quasi 190 miliardi di dollari, 270mila dipendenti in 79 Paesi, numero uno anche nelle tv (53 milioni l’anno, 145mila al giorno) abbia iniziato proprio da una scatola di acciughe essiccate.
Una storia di famiglia diventata impero, attraverso tre generazioni. Si comincia a Daegu, sud di Seul, nel 1938. Byung-ChuIl Lee, lasciati in provincia i genitori proprietari terrieri, fonda con 30mila won (20 euro) una piccola società spedalizzata in pesce e verdure inscatolate. Con la Corea in economia di guerra, ancora colonia del Giappone, il 28enne decide di esportare le sue conserve in Cina, in Manciuria esattamente. Ambizioso, da all’azienda un nome brillante: “tre stelle” (Samsung appunto, in coreano).
La scena cambia. È il 1993 e siamo in un hotel di Francoforte, in Germania. È trascorso mezzo secolo e a capo dell’azienda ora c’è il figlio del fondatore, Kun-Hee Lee. La piccola impresa è diventata una multinazionale. Prima i mulini e le macchine per il confezionamento tessile. Poi industria pesante, chimica, aerospaziale, costruzioni, servizi finanziari. E finalmente l’elettronica. E proprio la Samsung Electronics a dare gioie e dolori al capo: ha successo, ma non è ancora campione del mondo. Così Kun-Hee Lee convoca tutti i suoi dirigenti nella sala riunioni dell’hotel Kempinsky. Durante un discorso durato tre giorni e interrotto solo per dormire, resetta la “vecchia” Samsung: «Da oggi cambierete tutto», dice, «tranne moglie e figli». Dalle centinaia di pagine di quel documento (da allora noto come “Dichiarazione di Francoforte”) distribuito ai dipendenti (in versione a fumetti per i non-alfabetizzati), emerge un obiettivo: puntare su qualità e marchio, per mordere ai fianchi i concorrenti globali. E diventare il numero uno.
E siamo al 2013 e alla terza generazione. Jae-Yong Lee, nipote del fondatore: è vicepresidente, erede in pectore, l’uomo chiave dietro il successo del Galaxy. Che ha il compito di arrivare a 400 miliardi di dollari di ricavi entro il 2020, forte del distacco inflitto all’ex-prima della classe: la Apple.
E così il Galaxy superò l’iPhone. Nessuno l’avrebbe mai detto, forse neanche Steve Jobs (che in tempi non sospetti aveva scelto i coreani come fornitori degli schermi touch). Da lì la guerra fra giganti. Nel business: vinta da Samsung, 400 milioni di cellulari venduti in un anno, a oggi il 30% della quota di mercato degli smartphone contro il 22% di Apple. E in tribunale: per ora vinta da Cupertino, in un processo per violazione di brevetto (1 miliardo di dollari di danni, ridotti in appello della metà). Dalla Corea ribattono con i numeri: 5000 brevetti registrati, 10 miliardi di dollari investiti in 33 centri di ricerca e sviluppo. Come a dire: non abbiamo bisogno del copia-e-incolla.
E gli altri competitor? Microsoft ha appena rilevato Nokia. Motorola è stata comprata da Google, che ha anche An- droid (sistema operativo dei Galaxy). Sony ha inglobato Ericsson. Blackberry è in crisi. E gli analisti guardano alle “Samsung di domani”: le cinesi Huawei e ZTE.
Holding di lotta e di governo. «Un abitante di Seul può nascere al Samsung Medicai Center, vivere in un residence della Samsung costrunction division (che ha costruito anche le Petronas a Kuala Lumpur o il Burj Khalifa a Dubai), arredare casa con oggetti arrivati sulle navi della Samsung Shipbuilding costruite dalla Samsung Heavy Industry, avere un’assicurazione della Samsung Life Insurance, leggere un annuncio dell’agenzia CheilWorldwide (di proprietà di Samsung), vestirsi Bean Fole (marchio di Samsung Textile), dormire negli Shilla Hotel di proprietà del gruppo», dice Sam Grobart, autore di Think Coìossal, reportage sul mondo Samsung per Bloomberg Bwmesweek. Un chaebol, versione asiatica delle corporation. Una sorta di holding di Stato che da sola vale il 20% del Pil dell’intera Corea del Sud. E che dallo Stato ha ricevuto aiuti. E addirittura la grazia.
Kun-Hee Lee, gran capo che passerà il testimone al figlio Jae-Yong (44 anni, laurea in arte ed Mba alla Harvad, appassionato di auto veloci e nel cda di Fiat-ChrysIer, unico manager asiatico invitato al funerale di Steve Jobs), ha subito l’attacco dei fratelli-coltelli (un 77enne e un’80enne) per una storia di eredità. Ma, soprattutto, una condanna per tangenti e una per evasione fiscale (graziato poi due volte, da due Presidenti della Repubblica diversi). Eppure di lui, in azienda, si preferisce ricordare un altro aneddoto. Per un Capodanno regalò a tutti i dipendenti un cellulare Samsung, per poi scoprire che era fallato. Su sua richiesta, 150mila di quei telefonini furono bruciati in uno spettacolare rogo sotto gli occhi umiliati di personale e manager. «Se continueremo a fare prodotti cosi, tornerò a fare la stessa cosa». Poi arrivò il Galaxy e cambiò la storia.