Gianluca Baldini, il Venerdì 20/11/2012, 20 novembre 2012
GIOVANI SEMPRE PIU’ DISOCCUPATI (E NON E’ TUTTA COLPA DELLA CRISI)
Ogni tanto è il caso di vedere il cosiddetto «bicchiere mezzo pieno». Il tasso di disoccupazione medio dell’italia, il 12,1 per cento secondo gli ultimi dati Ocse, è in linea con quello dei 17 Paesi più industrializzati dell’Unione Europea. Ora è il turno dell’altra metà del bicchiere, quello mezzo vuoto: ovvero che il numero di disoccupati in Italia è in preoccupante crescita.
Solo nel terzo trimestre del 2012 il tasso era al 10,6 per cento. In questa triste classifica fanno peggio di noi solo l’Irlanda (13,8 per cento), la Slovacchia (14,2 per cento), il Portogallo (17 per cento) e la Spagna (26,4 per cento). Tutte economie che con un po’ di spocchia dieci anni fa sarebbero state considerate senza speranza rispetto al poderoso sistema delle piccole e medie industrie italiane. Inoltre c’è da sottolineare che la percentuale di disoccupazione in Italia è difficilmente calcolabile a causa del più grande cruccio che affligge l’Italia: l’evasione fiscale che, tanto per avere un’idea, ammonta a circa il 21 per cento del prodotto interno lordo, circa un quinto della ricchezza che ogni anno si produce nello Stivale. Questo dettaglio rende di fatto molto difficile il lavoro delle istituzioni (Istat e Ocse) che ogni anno devono calcolare quanti disoccupati ci sono in Italia. Un effetto domino che rende ancora più complessa la creazione delle liste di disoccupazione, a tutto svantaggio di chi cerca lavoro.
Ma quelli che stanno davvero male in Italia sono i giovani tra i 15 e i 24 anni: in questa fascia di età il Belpaese mette a segno un preoccupante 35,3 per cento. Persino Paesi come la Slovacchia (34 per cento), l’Irlanda (30,4 per cento), la Lettonia (28,4 per cento), l’Ungheria e la Bulgaria (entrambe con il 28,1 per cento) ci battono. Peggio di noi fanno solo Paesi noti alle cronache per essere stati sul baratro come la Grecia con un clamoroso 55,3 per cento, la Spagna con un 53,2 per cento, la Croazia con un 43 per cento e il Portogallo, non troppo distante da noi, con un 37,7 per cento. «I motivi sono diversi» spiega Paolo Guida, vice presidente Aiaf, l’associazione Italiana degli analisti finanziari. «A partire dall’incertezza normativa e dalla rigidità del lavoro, insieme a un sistema di ammortizzatori sociali probabilmente superato». Insomma il vero problema della disoccupazione italiana non è temporaneo ma di sistema. Per farla breve: la crisi c’entra ma solo marginalmente.
«La quasi totale assenza negli ultimi vent’anni di politiche economiche di sistema orientate alla competitività, alla formazione e, in generale, alla trasformazione del nostro antiquato sistema economico-produttivo», spiega Giovanni Landi, esperto economista e senior partner di Anthilia Capital Partners, «ci ha reso incapaci di cogliere le rivoluzioni geopolitiche (globalizzazione) e tecnologiche (il web, ma non solo) che stanno guidando il pianeta verso nuove fasi di sviluppo, confinandoci ad un conservatorismo di difesa sterile». «È di questi giorni», continua Landi, «l’aggiornamento dell’Indice globale di Competitività del World Economic Forum che ci relega al 49° posto su 148 economie censite. Se si passa alla competitività del mercato del lavoro, siamo al 137esimo posto, dopo Spagna (115esimo) e Grecia (127esimo). Per gli effetti della tassazione sul mercato del lavoro, siamo infine ultimi. La classifica comprende Paesi come Chad, Mozambico, Benin e Guinea». Cifre che però vanno prese con le molle. «Per esempio la Francia ci tallona con circa l’11 per cento di disoccupati in costante crescita» spiega Edoardo Ghiozzi Millelire di Convictions, società francese di fondi che per mestiere deve monitorare lo Stato dell’arte delle economie in cui investe.
Una soluzione a tutto questo però c’è, come ci insegnano i tedeschi che meno di dieci armi fa erano messi peggio di noi. «La Germania ha introdotto le famose riforme Agenda 2010 con la Spd di Schroder fra il 2003 e il 2005 per modernizzare, rendere più competitiva a livello mondiale e aumentare il potenziale di crescita dell’economia tedesca. Da allora la disoccupazione ( anche giovanile) non ha smesso di scendere e, dal peggiore della classe nel 2005, ora la Germania è uno dei modelli da seguire».
In effetti la locomotiva tedesca in termini occupazionali non sembra perdere un colpo. Secondo gli ultimi dati Eurostat, i giovani tedeschi che non lavorano sono intorno all’8,1 per cento, quasi cinque volte in meno che in Italia. Lo stesso vale per la classifica generale dei disoccupati con un risicato 5,4 per cento contro il 12,1 per cento dell’Italia. Ma la situazione sta cambiando, secondo gli esperti. «Gli indicatori di fiducia delle imprese italiane degli ultimi mesi (ad esempio l’indice Pmi)», sottolinea Guida dell’Aiaif, «suggeriscono un recupero dell’attività produttiva nella seconda metà dell’anno. Del resto, come confermano gli indici di correlazione, il tipico ritardo tra la ripresa dell’attività produttiva e renette favorevole sul mercato del lavoro è di due o tre trimestri, lasciando implicitamente prevedere un miglioramento del mercato del lavoro nel corso dalla primavera del 2014». Insomma, siamo sulla buona strada. Anche se molto dipenderà dalla stabilità della situazione politica italiana. Perché riforme così delicate come quelle del mondo del lavoro possono essere fatte solo in una condizione di stabilità. Magari evitando strappi controproducenti.