Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 24/9/2013, 24 settembre 2013
PERCHÉ CON B? PER POSTI E POTERE
Lo chiamavano il «Barone nero», Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, classe 1932, vercellese ma di origini sicilianissime. Dove il titolo nobiliare era spiegato abbondantemente dal nome e dove «nero» stava proprio per fascista, ché negli anni ’60 e ’70, consigliere comunale a Milano e poi deputato, Staiti fu missino senza infingimenti e tutto d’un pezzo. Il bello è che fu avversato, perfino odiato, più nel suo partito che fuori, forse perché era un critico spietato con di quella destra, come scrisse anni fa al Foglio, «dei pellegrinaggi a Predappio con acquisto di gadget, dei ’ranci camerateschi’, delle commemorazioni in camicia nera del 28 ottobre, dei santini elettorali con ’il testone’, della ripetizione dei riti più ridicoli del ventennio, delle macchiette alla ’vogliamo i colonnelli’». Né amava la «becerodestra» che serviva a fare il cane da guardia dei benpensanti. Staiti praticava la destra «antimondialista» e antiamericana dei giovani intellettuali come Marco Tarchi, Stenio Solinas, Maurizio Cabona, poi emarginati dal Msi di Giorgio Almirante.
Oggi è uno splendido ottuagenario, che vive sul Maggiore, dove legge molto e scrive, «quando ne ho voglia, ché il lago concilia il sonno». Il suo sito www.tommaso-stati.ch raccoglie pensieri durissimi, «per cui nessuno mi ha mai querelato». Antiberlusconiano antemarcia, ultra critico con la destra che gli si mise al seguito, oggi osserva il Cavaliere in ritirata e gli ex-compagni di partito, che lo attaccarono, un po’ allo sbando.
Domanda. Dunque Staiti i fatti le danno ragione: le raccomandazioni che faceva ai suoi ex compagni di partito paio, oggi, un epitaffio...
Risposta. Da un certo punto di vista mi spiace aver avuto ragione. Pur avendo un’enorme prevenzione verso i miei ex-camerati, mi ripetevo: non saremo adeguati ma siamo, tutto sommato, diversi. Se dovessimo davvero governare, mostreremo come quanto siamo onesti, fedeli allo Stato, alla sovranità nazionale. E invece...
D. E invece?
R. Peggio degli altri, abbiamo impersonificato la conquista del potere fine a se stesso.
D. Anche Gianfranco Fini, al quale, quando ruppe con B., lei si riavvicinò?
R. Gli chiesi, nel 2010, come fosse stata possibile quell’alleanza. E lui fu molto chiaro: «Posti e potere». Ecco la giustificazione.
D. Ad alcuni, oggi, toccherà anche la purga di Forza Italia...
R. Si ritroveranno gli arrivisti di sempre, gli abbarbicati in posti di potere. Anche se vedo qualcun altro che, in un sussulto, dice: ’Rifaremo Alleanza nazionale’. Ma quella non è neanche una minestra riscaldata, è una sbobba immangiabile. Insiema a Daniela Garnero Santanché, anzi Santancheque come la chiamavo io, una creatura di Ignazio La Russa che l’ha introdotta alla politica milanese direttamente dai salotti di Cortina e Forte dei Marmi.
D. La Russa, suo grande avversario, di cui lei contestava l’amicizia con Salvatore Ligresti, un altro che passa i suoi guai. Oggi sta nei Fratelli d’Italia, la destra «aberlusconiana», per cui deduco che non le ispirino fiducia.
R. Sì, quella presenza è un peccato originale notevole, e poi c’è Giorgia Meloni, con quell’eterna espressione di ragazzina delle periferie romane, che non mi convince.
D. Insomma, un finale inglorioso?
R. La vita è anche così, per carità, però un movimento che voleva essere sulle barricata per difendere lo Stato, la Patria e la legalità, finito a fare le mobilitazioni per un signore ricchissimo.
D. Ma che effetto le fa B. costretto, se va bene, a far politica da casa?
R. Come diceva Flaiano, se un giorno un marziano arrivasse a Roma, dopo cinque minuti troverebbe tutto normale. Così com’è normale che un presidente della Repubblica torni a spendersi, come ha fatto ancora venerdì scorso, contro la guerra fra magistratura e politica. Ma dov’è questa guerra? Io non la vedo.
D. Insomma, le vicissitudini di B. non la inteneriscono?
R. No, innanzitutto perché non è affatto buono d’animo come si vuol rappresentare e come altri lo rappresentano: è cattivo come quelli che devono esibire la loro potenza e far vedere che possono tutto.
D. Lei lo conosce da tempo?
R. L’ho conosciuto quando ancora non era nessuno e ne ho sempre tratto la sensazione di uno che vuole piacere e che non tollera di non essere simpatico all’interlocutore.
D. Si ricorda quando lo vide la prima volta?
R. Sì alla fine degli anni ’60, quando, con alcuni amici, avevamo scoperto un ristorante a Brera, la Torre di Pisa. C’eravamo fatti riservare permanentemente una saletta. Amici della politica e non solo:c’erano anche Gigi Rizzi (famoso playboy, ndr) Lorenzo Galtrucco (noto industriale, ndr), Teo Teocoli e molti altri.
D. E c’era Berlusconi?
R. No, Berlusconi s’affacciava ogni tanto alla saletta, con l’espressione di chi bramava essere accolto nel gruppo. «Chi è quello?», ricordo che chiese qualcuno. «Un palazzinaro», rispose qualcun altro.
D. E non lo accettaste a quel convivio?
R. Ma no! Portava quei cappelli un po’ lunghi sul collo e quei doppiopetto che gli stavano male già allora. E poi si notava da lontano quell’altissima opinione di se, che sconfinava nell’esibizionismo.
D. Lo teneste fuori ma qualche anno dopo non fu possibile snobbarlo, immagino...
R. Certo, perché entrò in politica molto prima di arrivare alla politica politicante. Attraverso le tv c’era continuamente dentro: per fortuna sua, avendo sempre al fianco una persona come Fedele Confalonieri, l’unico personaggio con la testa sulle spalle del suo giro. Quello che gli toglieva parecchie patate bollenti e che si occupò, per esempio, della legge Mammì, che minacciava da vicino gli interessi del gruppo.
D. E lei, come politico milanese influente, non ci ebbe a che fare?
R. Poche volte. La prima dopo una partita a San Siro fra Milan e la Juve, di cui sono tifosissimo. Mi chiese di andarlo a trovare.
D. Credo per non parlare di calcio...
R. Ma no. La legge, allora obbligava le tv commerciali a fare i telegiornali e Fininvest non ne voleva sapere, perché c’erano da assumere giornalisti, mettere in piedi redazioni, insomma spendere moltissimo.
D. Paradossale. Poi cambiò idea...
R. Certo. Ricordo che fu in via Rovani, a Milano, a casa sua. Uscì da una porta laterale. Poi l’ho rivisto, tre o quattro volte, e aveva sempre quell’espressione indispettita di non riuscire a piacermi.
D. Torniamo alle sue scelte politiche, a febbraio destò molto clamore la sua dichiarazione di voto pro-Beppe Grillo.
R. Ne avevo seguito la campagna su Sky e, da un certo momento in poi, mi ha convinto il loro riferimento alla «comunità nazionale». L’Italia non poteva che salvarsi così, tornando a sentirsi comunità. Il M5s mi pareva l’unica alternativa al sistema e ho sperato che dessero una spallata a tutto l’edificio, i cui muri erano e sono marci.
D. È deluso o no?
R. Qualche difficoltà di comprensione l’ho avuta: non posso dimenticare 20 anni di consiglio comunale e 15 di Parlamento: l’abitudine a un tipo di politica c’è ancora. Però tutto sommato, aldilà dell’inesperienza, hanno mantenuto le promesse fatte in campagna: come restituire il soldi del finanziamento pubblico.
D. Col Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno, però, è andata peggio...
R. Non ci riescono ma non per colpa loro: ormai le camere discutono solo le iniziative del governo. E d’altra parte non fanno loro gli ordini del giorno dei lavori....
D. E questo Paese come lo vede?
R. Destinato a non risollevarsi più.
D. Oddio...
R. Forse la soluzione può essere andare in Europa, questa Europa dei burocrati che non mi piace, anche se sono un europeista.
D. Non ci siamo già, in Europa?
R. Intendo presentarsi ai vertici e dire: siamo un bellissimo Paese, possiamo essere il parco giochi del Vecchio Continente, ma aiutateci a sistemare il rischio idrogeologico, i musei, i monumenti. Facciamo grande operazione da 200 miliardi di euro.
D. E gli affidiamo le chiavi, dice?
R. Più o meno. D’altra parte a questo punto che facciamo? Siamo un Paese industriale? Non mi pare, neanche la Fiat lo è più. Sì, c’è qualche esempio di made in Italy, nella moda, nell’enogastronomia, ma dove vuol andare un Paese che non ha un progetto industriale e che con la finanza ha complicato tutto?
D. Europa che è sempre stata presente in un certo pensiero di destra...
R. Sì, la Giovane europa fu un’organizzazione che attirò tanti nel dopoguerra. D’altra parte se oggi, con la crisi siriana, non avessimo avuto un’europeista come Emma Bonino agli Esteri, con Berlusconi saremmo stati subito pronti a intervenire. Avremmo fatto il bis dell’Iraq, col Cavaliere che accorse subito nel ranch di George W. Bush, ultra-accondiscendente.
D. Non le piacque?
R. La trovai una mancanza di dignità.
D. L’Europa, quindi, anche come contraltare all’America, lei dice?
R. Quando c’era Charles De Gaulle, certe cose non passavano. C’erano la coscienza di una storia, di una cultura, di una civiltà. Una coscienza europea che oggi manca.