Niccolò Zancan, La Stampa 24/9/2013, 24 settembre 2013
LA SECONDA ODISSEA DEI GIOVANI PROFUGHI SIRIANI
Ma dove stai correndo? «Al mare, vado al mare. Tu conosci la strada più veloce?». Mehari ha una tuta da ginnastica fluorescente rossa e una fede incrollabile nella sua forza. Pensa di potersi nascondersi fra le rocce come uno spirito invisibile di aria pura. «Police, police!» urla a Tesfit, appena sente il rumore di una camionetta dell’esercito su per la stradina. Si acquattano insieme con la faccia nella terra, fra gli asparagi selvatici. Diciotto anni, capelli ispidi neri alti una spanna, denti che brillano al sole. Forse vorrebbero andare a fare il bagno perché hanno anche la scabbia, fra le altre cose. Un gratta-gratta continuo che li tormenta. O magari vorrebbero solo rivolgere una preghiera verso casa. Mehari si è tatuato sul braccio una frase in inglese: «Mom, i’m sorry».
Ma il mare è lontano dal centro di accoglienza, la spiaggia gremita di Baia Turchese a venti minuti di cammino, l’ennesimo miraggio, e neppure l’ultimo. Sono partiti dall’Eritrea un anno e tre mesi fa. Hanno percorso le piste del deserto sotto il sole a 42 gradi. Sono stati comprati, venduti, torturati: bastonate sui piedi, plastica fusa sgocciolata sulla pelle, frustate sulla schiena e umiliazioni sessuali. Hanno accettato di partire dal porto di Tripoli con il tempo cattivo, pur di poter avere uno sconto dagli scafisti. E quindi, è comprensibile, questa piccola fuga estemporanea dal centro di accoglienza è soltanto un altro passo verso la libertà. «Noi non vogliamo dare le nostre impronte all’Italia. Vogliamo andare in Switzerland». In Svizzera? «No, in Svezia, in Svezia dice Mehari - dove ci trattano bene. Non daremo mai le nostre impronte a voi italiani».
Si avvicina la camionetta militare, il cassone sobbalza dentro una buca. Mehari e Tesfit scattano giù a perdifiato. Saltano il filo spinato arrugginito, entrano nel centro passando fra le maglie allargate della rete, scavalcano i materassi di gomma piuma buttati fra gli alberi, calpestano le coperte termiche usate nella notte da famiglie con bambini, che sembrano file di bare argentate. Entrano nell’area contrassegnata con i nastri rossi e bianchi - tipo scena del crimine - che viene comunemente definita «la zona degli scabbiati». Dove viene somministrata la terapia. E da laggiù, con un sorriso, ora fanno ciao con la mano. Arrivederci, certo. Loro sperano in Nord Europa.
Come Mehari e Tesfit, altri 300 profughi si stanno rifiutando di consegnare i dati per il riconoscimento. Non vogliono impegnarsi con questo Stato. Tengono le mani strette a pugno e non vanno al fotosegnalamento. E’ la novità dell’anno 2013. Non siamo più il paradiso di nessuno. Un problema delicatissimo su cui non si trovano commenti ufficiali, almeno qui. Due giorni fa gli immigrati sono scappati in massa per andare a protestare davanti alla chiesa madre, dove a luglio Papa Francesco aveva pregato per loro. Scappano dalle reti di Lampedusa per chiedere di poter scappare ancora, anche dall’Italia.
Il centro di accoglienza ha una capienza massima di 250 posti. Oggi ci sono 490 migranti, compresi sessanta minori, di cui trenta non accompagnati. Due madri siriane con figli piccoli dormono sdraiate nei corridoi degli uffici di Unhcr e Save the Children. Altre famiglie sono accampate fuori. Ci sono tende improvvisate. Code per poter telefonare un minuto a casa, preghiere collettive contro cancelli chiusi. E lì in mezzo, mentre distribuiscono penne al sugo e bastoncini di pesce, c’è anche Salim, con la sua storia nel telefonino. Lo ha mostrato alle assistenti sociali come una specie di passaporto. Un telefonino pieno di morti ammazzati e rovine, in modo che nessuno, davvero nessuno, potesse dubitare delle sue ragioni. «Sono scappato quando un cecchino ha sparato alla mia ragazza. Camminavamo nel centro di Damasco. E’ crollata al mio fianco, senza dire niente. Hanno sparato da un tetto. Allora ho deciso che non avevo più nessuna ragione di rimanere». I siriani occupano l’ultima ala del centro, la più lontana dall’ingresso. Nelle piccole stanze prefabbricate, hanno lenzuola di nylon trasparenti, pavimenti lastricati di bottiglie d’acqua vuote. Hanno ricevuto un sapone e uno spazzolino da denti. «Siamo a Lampedusa?», urla Salim dalla finestrella della sua stanza. «Sì, Lampedusa». «Quanto è lontana l’Italia da qui?».
Sulle coste siciliane sono sbarcati 6.000 siriani dall’inizio dell’anno. Cinquecento solo venerdì pomeriggio al porto di Siracusa. Una donna è morta durante l’attraversata, sfinita dalla stanchezza. A differenza dei ragazzi partiti dall’Africa subsahariana, loro non hanno remore nel dare le impronte, non sono istruiti al riguardo, non hanno parenti che li hanno preceduti. Chiedono lo status di rifugiati all’Italia. Ecco perché partono per altri centri di accoglienza, mentre somali e eritrei sono ancora bloccati qui. In tutta la Sicilia ormai stanno finendo i posti. A Trapani hanno piazzato più di cento migranti in una palestra comunale. A Porto Palo all’ex mercato del pesce. A Siracusa non sanno più dove metterli. «A Lampedusa è auspicabile la riapertura del modulo bruciato durante le rivolte del 2011 - dice Giulia Foghin dell’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu - abbiamo bisogno di più spazio. Intanto dobbiamo cercare di incrementare i trasferimenti. In questo senso è una decisione importante l’aumento dei posti Sprar». Significa che tutti i Comuni italiani dovranno dare maggiore disponibilità all’accoglienza.
Nel 2013 dal mare sono già arrivati 26 mila profughi, quasi tutti in fuga da guerre e violenze. In tutto l’anno scorso erano stati 13 mila. Sono ragazzini come Mehari e Tesfit, che nei loro viaggi hanno già visto più dolore di quanto si possa mettere insieme in cento vite disgraziate. «Sono stato rapito - dice Tesfit - ho dovuto raccogliere soldi dai miei parenti. Mi dicevano: se non paghi, vendiamo i tuoi reni e il tuo fegato, ti seppelliamo qui». Violenze lungo le piste del deserto, violenze nelle carceri libiche. «Sono razzisti, ti tirano calci fra le gambe. Ti frustano. Per loro non vali niente». Non è proprio così. Dopo il trattamento, 500 dollari possono bastare per uscire dal carcere e tentare l’attraversata. «E’ qualcosa di sconvolgente - dice la dottoressa Angela Maria Callari di Lampedusa Accoglienza - molti profughi presentano evidenti segni di torture».
Avremmo voluto entrare al centro dal cancello principale. Ma la prefettura di Agrigento in questi giorni nega il permesso per «ragioni di sicurezza». Per fortuna le storie passano dalle reti, domani sarà qui la Cnn. Sentiranno i bambini cantare in coro «Babà jablì baloun», papà mi ha portato un palloncino. Vedranno Mehari, Tesfit e gli altri ragazzi giocare a pallone nelle gabbie, mentre sta finendo la stagione estiva. «Partono da Paesi talmente poveri e in crisi, che le famiglie non hanno alcun potere di trattenerli - dice Lilian Pizzi, psicologa di Terre des Hommes - è un’inversione genitoriale. Sono loro a farsi carico, figli che diventano padri e si mettono in viaggio. Ma non pensavano di dover attraversare tutto questo. Molti sono incerti se raccontare a casa quello che hanno passato. Si sentono in colpa». «Mom, i’m sorry». Scusa se sono qui e non ti telefono. Scusa se non ho ancora mandato soldi a casa. Perdonami mamma se non ce la farò.