Gianni Ranieri, La Stampa 24/9/2013, 24 settembre 2013
BARTALI, IL CAMPIONE CHE AIUTAVA GLI EBREI
Nelle notti del Giro d’Italia e del Tour de France, Gino Bartali che dalla bicicletta era sceso tanti anni prima, raccontava le incredibili e le credibili vicende della rivalità con Fausto Coppi, il campione che andandosene così presto l’aveva lasciato solo. Solo con l’unica compagnia delle sue memorie.
C’era di tutto in quei racconti, dalle mirabolanti arrampicate alpine ai ritrovamenti di misteriose fiale lasciate vuote tra i rifiuti alberghieri. Notti alle quali Bartali si teneva aggrappato per non precipitare nel dolore dei ricordi. Ma erano tutti racconti di corsa, nulla, neppure una sillaba che svelasse anche soltanto un minuzzolo di ciò che nella Firenze martoriata dall’occupazione nazista il campione aveva compiuto. Quelle storie tornano a galla oggi, nel giorno in cui Bartali diventa «Giusto tra le Nazioni» anche se lui non parlò mai degli ebrei che aveva salvato dalla deportazione ad Auschwitz.
Non una sillaba sul piccolo fiumano Giorgio Goldenberg nascosto in una cantina di Firenze o sulla signora Giulia Donati nascosta al Lido di Camaiore. Non una sillaba sulle suore del convento di San Quirico ad Assisi che accoglievano Gino come un figlio e lui che aveva tempo appena per un segno della croce cominciava a sfilare dalla pompa finta e dal telaio della bicicletta e dal sellino i documenti che avrebbero aiutato gli ebrei rifugiati ad evitare la deportazione. Faceva una incredibile quantità di viaggi Firenze-Assisi il grande scalatore allora ventinovenne, e le volte che i tedeschi lo fermavano avvertiva «allenamento, allenamento, ‘un mi posso fermare o mi si raffreddano i muscoli».
Gino Bartali era un cattolico credente. Più che credente, diceva lui. Al Tour de France si presentava sempre puntualissimo al via della tappa che partita da Lourdes. Una mattina, molto presto, mentre pregava davanti alla nicchia della Madonna, lo avvicinò il corridore francese Leblanc, ottimo atleta ma poco tagliato per la conquista della maglia gialla. Leblanc gli sussurrò: «Maestro, che cosa dovrei fare per vincere il Tour?». «Pregare. Pregare di molto» gli rispose Bartali. Era un vero credente, anche nei miracoli. E quando il figlio Andrea ci spiega che al su’ babbo, certo, chiacchierare piaceva, ma c’erano le cose sulle quali si poteva discorrere fino all’alba e poi c’erano le altre cose, quelle che bisognava trattare come si trattano le pietre preziose.
La Yad Vashem di Israele è l’Ente nazionale per la memoria della Shoah, il sacrario della memoria di Gerusalemme, che decreta chi merita l’onore di chiamarsi Giusto tra le nazioni. È giusto tra le nazioni colui che, pur non essendo ebreo, ha messo a repentaglio la propria vita per salvare quella di un essere umano che apparteneva ad un’altra religione. Il riconoscimento della Yad Vashem arriva proprio nei giorni in cui la Toscana ospita i Mondiali di ciclismo. Una notizia bella e grande, per un campione della cui esistenza le folle che lo hanno amato e che ancora lo amano sapevano soltanto una parte.
La scoperta dell’altro Bartali, quello delle vittorie dell’animo su strade tanto più dure e pericolose di quelle che lo portavano all’Izoard o al Galibier non è altro che la rivelazione di una generosità che commuove. Bartali, il rabbino di Firenze Nethan Cassuto e l’arcivescovo fiorentino Elia Angelo Dalla Costa, altro Giusto, componevano in quella Firenze buia un formidabile trio di portatori di luce. Ora, quando pensiamo a Gino continuiamo a vederlo con i tubolari a tracolla, nella polvere del Giro, ma lo vediamo anche curvo sul manubrio della bici che fila verso il Convento di San Quirico con il suo carico di documenti proibiti ma benedetti dal cielo.