Massimo Mucchetti, la Repubblica 24/9/2013, 24 settembre 2013
TRONCHETTI COPRE LE SUE COLPE E PREPARA LA VENDITA DI PIRELLI
CARO direttore, Alessandro Penati ha fatto bene a dedicare due sole righe alle contestazioni che ieri gli ha mosso Marco Tronchetti Provera. Il presidente della Pirelli insiste a voler difendere l’indifendibile. E Penati ha il merito (storico per chi si occupa di cronache finanziarie) di aver prontamente criticato con ottimi argomenti l’accumulazione originaria della fortuna con la quale Tronchetti cercò, conquistando il potere in Telecom, di diventare l’erede di Giovanni Agnelli. Quell’accumulazione originaria avvenne attraverso una discussa e discutibile stock option sulla vendita di una partecipazione della Pirelli che nel 2000 tolse mille miliardi di lire dalle casse della Bicocca. E tuttavia qualche chiosa può essere fatta ai detti tronchettiani per il bene di Telecom Italia e della stessa Pirelli, aziende che hanno il diritto di sopravvivere a proprietà non adatte.
Tronchetti prova a negare il suo peccato originale: aver strapagato il biglietto d’ingresso nelle telecomunicazioni. Cita i multipli di imprese comparabili. Ma nel luglio 2001 le quotazioni delle telecom company erano già in caduta da mesi. L’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle ebbe un effetto temporaneo sui mercati finanziari. Lo sboom delle telecomunicazioni era un fenomeno strutturale. Tronchetti stesso riconobbe il problema quando chiese a Gnutti e Consorte lo sconto sul prezzo.
Tronchetti dice di aver acquistato da Colaninno, Gnutti & soci una Telecom con 43 miliardi di debiti finanziari netti. Non è vero. Nel 2001 Pirelli e, in minoranza, Benetton acquistarono dalla holding lussemburghese Bell il 24% di Olivetti che deteneva il controllo di Telecom. Quest’ultima, nonostante la campagna acquisti di Colaninno, aveva un debito pari alla metà del dato consolidato. Se avesse scalato Telecom Italia, la Pirelli non avrebbe incontrato resistenza e non avrebbe dovuto sobbarcarsi i debiti dell’Opa di Olivetti sulla Telecom medesima. Ma Tronchetti non aveva i capitali propri per ottenere il potere personale e, al tempo stesso, per fare un’operazione di mercato su così larga scala. In teoria, avrebbe potuto promuovere una public company, in pratica ambiva ai benefici privati del controllo. Da perfetto arciitaliano, imboccò una scorciatoia. Tra i dirupi.
Certo, vendendo buona parte degli attivi, specialmente le preziose partecipazioni estere (si pensi solo al 10% dell’indiana Barti), ha ridotto il debito del raggruppamento Olivetti-Telecom. Ma poi, il debito, l’ha ricostituito con l’acquisto di azioni Telecom e Tim per non diluire le proprie posizioni con le fusioni Olivetti-Telecom e Telecom- Tim. In tal modo ha gonfiato gli attivi sul piano contabile senza allargare la base industriale del gruppo, come invece avevano fatto la gestione pubblica e quella colaninniana, e senza nemmeno rafforzare la redditività reale, se non per i risparmi fiscali, peraltro dilapidati in dividendi troppo generosi date la consistenza e la qualità del debito. E così, da anni, Telecom Italia ha un patrimonio netto tangibile negativo e una flessibilità finanziaria pari a zero in tema di investimenti. Questo è il lascito di Tronchetti. Il resto è chiacchiera.
E poi, per cortesia, l’uomo che sussurrava al generale Pollari lasci stare l’ostilità della politica. Il piano per lo scorporo della rete non replicabile, che quel galantuomo di Angelo Rovati gli aveva fatto pervenire in via confidenziale, era una base di discussione tra gentiluomini. Tronchetti lo fece filtrare al «Corriere» e al «Sole 24 Ore», condendolo in modo tale da essere presentato come un attentato alla libera impresa. Oggi mi pare che gli stessi argomenti proposti da Rovati vengano trattati da tutti senza più gli antichi sdegni. Meglio così. Ma in quell’autunno del 2006 la canea sul «piano Rovati» servì ad attenuare lo scandalo che avrebbe dovuto suscitare l’attenzione della security di Telecom Italia ai danni di tanti, tra i quali il presidente della Commissione europea, Romano Prodi.
Purtroppo, le banche italiane non hanno mostrato verso l’azionista di riferimento della Pirelli lo stesso rigore riservato a tanti altri clienti. Anziché arrivare al redde rationem in tempo utile, si sono mosse tardi finendo per commettere lo stesso errore di Tronchetti: strapagare. E come Tronchetti hanno ingessato Telecom. Senza mai dare via libera a quell’aumento di capitale che solo avrebbe rimediato agli errori dei soci eccellenti.
Il presidente della Pirelli adesso censura quella difesa dell’italianità. Non per il prezzo ma in quanto tale. Ingratitudine? No. E’ politica. Marco Tronchetti Provera, infatti, si prepara a vendere Pirelli. E con la lettera di ieri ci dice che non vuole vincoli. L’accordo con Clessidra è chiaro: tre anni di governance tronchettiana e poi due anni con il fondo al comando. Entrambi si riconoscono il diritto di covendita. Se dunque Tronchetti non venderà entro tre anni, lo farà il fondo di private equity, perché questo è il suo scopo. Non sarebbe un dramma. La stessa Mediobanca Securities avanza preoccupazioni sulla recente fuga dei manager che avevano raddrizzato la Bicocca e poi sono entrati in dissenso con il capo. Ma molto dipenderà da chi compra. La storia è piena di multinazionali che arrivano e chiudono i concorrenti. Unicredit e Intesa Sanpaolo restano in Pirelli. A quale scopo non è chiaro.
Massimo Mucchetti*
*senatore del Pd