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 2013  settembre 23 Lunedì calendario

L’INSTABILITA’ E’ SOLO UN ALIBI: PUO’ FARE BENE ALL’ ECONOMIA

Forse non tutti ricordano che dal 2010 è successo qualcosa di storico in Ita­lia: la spesa pubblica corrente ha iniziato a diminuire in valo­re assoluto. E ancor più ha ini­ziato a diminuire la spesa cor­rente al netto di quelle voci, co­me gli interessi sul debito pub­blico e la spesa pensionistica, che sono il risultato di compor­tamenti passati, di debiti accu­mulati in tempi di stabilità con­certativa e non riducibili nel breve periodo. Questa riduzio­ne della spesa corrente è dipesa anche dal fatto che è diminuito il numero dei dipendenti pub­blici, altro evento di svolta ri­spetto al passato. Ciò non è av­venuto in anni di stabilità politi­ca, anche se la correzione è ini­ziata quando si pensava che la stabilità politica fosse assicura­ta. Mai come negli ultimi anni l’Italia ha vissuto l’instabilità eppure la questione centrale del controllo della spesa è stata affrontata, seppure la strada sia ancora lunga. Non altrettanto si può dire della politica fiscale, i cui errori hanno contribuito, assieme a altri fattori, ad aggra­vare la recessione economica. L’instabilità, quindi, c’entra po­co, conta la capacità di fare scel­te corrette e correggere rapida­mente quelle sbagliate di fron­te all’evolvere della realtà. D’al­tra parte, l’evoluzione in questi anni del famoso spread mostra come il rendimento richiesto dai mercati per sottoscrivere il debito italiano è guidato da tan­ti fattori, da considerazioni sui fondamentali della sostenibili­tà del debito, come da azioni speculative che da questi fonda­mentali sono disgiunte, ma non dall’instabilità politica. Ba­sti pensare come nulla sia suc­cesso quando si aprì la crisi del governo Monti o nella massi­ma situazione di caos e incertez­za seguita alle ultime elezioni. Forse è avvenuto il contrario in questi anni, si è usata l’instabili­tà­dei mercati finanziari per de­terminare l’instabilità politica, la direzione causale è stata esat­tamente contraria a quella che oggi viene denunciata.
D’altra parte, è concettual­mente sbagliato temere l’insta­bilità o dare connotati di per sé positivi alla stabilità. La vita, l’economia, la conoscenza, l’in­novazione, il progresso del­l’umanità è frutto del mutamen­to, dell’instabilità e dell’agire in condizioni d’incertezza. Nas­sim Taleb nel suo best- seller An­tifragile (traduzione italiana Antifragile. Prosperare nel di­sordine , Il Saggiatore, Agosto 2013) ricorda come sia i corpi biologici sia i corpi sociali pos­sono trarre benefici e rafforzar­si quando sottoposti a stress, al rischio e all’incertezza. È fragi­le ciò che al contrario si spezza invece che adattarsi al muta­mento e alle sollecitazioni.
D’altra parte, il sistema capi­talistico è il modo di organizza­re l’economia più instabile del­la storia, ma è anche il sistema che ha generato la più impres­sionante e più duratura fase di crescita del benessere della sto­ria. Possiamo anche dire che il concetto stesso di crescita na­sce con il capitalismo. Una cre­scita tuttavia che avviene attra­verso crisi, fluttuazioni, e la ca­pacità di imprenditori e capita­ni di ventura di cogliere i muta­menti e le opportunità date dal­l’instabilità e agire nell’incer­tezza. La distruzione creatrice di Schumpeter è il simbolo del dinamismo di un sistema che prospera nell’innovazione, che è di per sé rottura degli as­setti stabili quando essi diven­gono simbolo di stagnazione e morte. Non è forse ostacolo al dinamismo dell’economia ita­liana la tendenza alla stabilità degli assetti proprietari di un ca­pitalismo corporativo per trop­po tempo ingessato?
Cosa c’era di più stabile del re­gime brezneviano o dei regimi crollati sotto la spinta delle pri­mavere arabe o dei fanatismi fondamentalisti, che non si combattono con l’immobili­smo ma al contrario rompendo assetti non più in grado di regge­re? La conservazione rappre­senta una stabilità che è quanto di più fragile ci sia, incapace di cogliere le necessità di muta­mento e quindi destinata a col­lassare nella tragedia.
L’Italia ha bisogno di cresci­ta, meglio di crescita stabile, nel senso di sostenibile nel tem­po, ma non della stabilità della non crescita. D’altra parte an­che una crescita stabile a volte deve destare sospetti. Non in Italia, ma negli Stati Uniti e in gran parte del mondo si è avuto prima della crisi del 2008 un pe­riodo di crescita stabile come non si era mai registrata dal do­poguerra. Sembrava che, an­che grazie all’innovazione fi­nanziaria, le fluttuazioni econo­miche fossero ormai un ricor­do del passato, di un capitali­smo primitivo. Il risveglio è sta­to brusco. L’apparente stabilità nascondeva l’estendersi delle disuguaglianze, dei disequili­bri e i sem­i di una instabilità de­stinata ad esplodere più violen­temente, quanto più l’apparen­te s­tabilità aveva nascosto i mu­tamenti che richiedevano ri­sposte innovative.
La stabilità non è quindi né buona né cattiva, non è di per sé un valore. È un valore la capaci­tà di decidere rapidamente an­che, e soprattutto, in condizio­ni di incertezza e di caos.
La retorica della stabilità si ap­pella anche all’esigenza degli investitori di agire in un conte­sto di certezze. È certamente un’esigenza umana, e quindi anche degli imprenditori, di mi­nimizzare l’incertezza, ma so­no proprio gli imprenditori che sanno che il loro mestiere è af­frontare il rischio. Molto peg­gio, tuttavia, quando all’incer­tezza si sostituisce la certezza di una politica sbagliata o, an­cor di più, l’inaffidabilità della politica.
Il rapporto tra instabilità e in­certezza è complesso. L’incer­tezza è uno stato non eliminabi­le della vita, come lo è l’instabili­tà, essendo la stabilità solo fase transitoria. Il rischio derivante dall’incertezza si può in parte misurare e viene incorporato nelle decisioni e nei comporta­menti. Ma vi è una incertezza nefasta derivante dall’inaffida­bilità delle politiche che genera non innovazione e accettazio­ne del rischio, ma comporta­menti difensivi e di fuga.
Abbiamo più volte ricordato, assieme a molti altri analisti, che il danno forse maggiore de­terminato dalla politica fiscale del governo Monti è stato l’aver mantenuto nell’incertezza e sotto minaccia per quasi un an­no g­li italiani sull’entità e le mo­dalità di imposizione dell’Imu. Ciò ha prodotto il maggior dan­no possibile rispetto all’entità del prelievo ottenuto. Oggi, la certezza che si deve dare agli ita­liani è che l’era dell’aggressio­ne fiscale è terminata, che c’è una svolta di politica fiscale, graduale e responsabile nel quadro degli impegni europei, come lo è stata l’azione di conte­nimento della spesa degli ulti­mi anni, anche se insufficiente, ma che dalle decisioni non si torna indietro. Se tutto può es­sere rimesso in discussione, pri­ma ancora di fare i primi passi, se tutto deve essere negoziato all’infinito, allora l’unica stabi­lità che si ottiene è quella di un tavolo di gioco senza giocatori, perché chi può se ne va. E non parliamo di governo, ma di im­prese e giovani istruiti in cerca di futuro. E noi continuerem­mo solo a intravedere una ripre­sa, ma al di là dei confini nazio­nali.