Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 23/9/2013, 23 settembre 2013
“MI ATTACCA NO TUTTI PERCHÈ OSO SPERIMENTARE”
La camicia è lisa: “Ma è proprio la stessa che indossavo la sera della premiazione”, i ricordi strappati: “Ho abitato in Africa fino all’età di 12 anni, un periodo difficile, legato alla malattia di una persona cara”, la vita solo un passaggio di tempo tra un’ossessione e l’altra. Il signor Gianfranco Rosi di cui nulla si sapeva e non molto altro si saprà: “Mi piace l’anonimato, considero la solitudine un valore e della mia intimità racconto sempre molto poco” studia, decide e poi parte: “Come un medico, con uno zaino per il suono e una cinepresa in spalla”. Da due decenni, con riconoscimenti internazionali inversamente proporzionali alla fama indigena, Rosi filma stagioni darsi il cambio in una vecchia base americana abbandonata, monsoni e barcaioli sulle rive del Gange, torturatori seriali con il cappuccio e nobili decaduti a loro agio in 15 metri quadri. Osserva e poi, con la stessa distratta curiosità che gli ha restituito un Leone d’oro quando disperavano ormai anche i parenti, lascia il mondo per abitare altrove. Animando quadri straordinari. Accumulando materiale, smarrendo i punti cardinali, fluttuando tra alberghi di frontiera, roulotte nel deserto e confini immaginari.
A mezzo secolo dalla conquista lagunare dal suo omonimo Francesco: “Non ci conosciamo neanche”, le mani sulla città (incorporea, invisibile, costretta ai bordi del Raccordo anulare) le ha messe il Rosi fino a ieri meno noto. Con un film “francescano” che a differenza dell’affresco napoletano del’63, non specula sul mattone ma sull’esistenza. Nel SacroGra premiato in laguna da Bertolucci (producono Visalberghi, Rai Cinema e Mibac) nuotano esseri umani che indossano la marginalità come un abito di sartoria. Barellieri, puttane, botanici, becchini. Automobilisti improvvidi lanciati a tutta velocità contro un guardrail e filosofi travestiti da pescatori di anguille sulle rive del Tevere. Sacro Gra è la bandiera dei vinti che rifiutano di lamentarsi. La riserva indiana di unistintopopolarecheapplicala pietà e del pietismo, se ne fotte. Il perimetro di un’enclave nascosta che rielabora la propria biografia: “Il regista è un po’ come l’analista, ascolta i suoi pazienti, che gli raccontino o meno balle è relativo. La verità non è poi così interessante e come diceva Calvino, si manifesta nell’attimo in cui ti volti e la cosa che hai visto, all’improvviso, non c’è più”.
Intorno ai 70 chilometri dell’autostrada urbana più lunga d’Italia, nel rutilante Saturno che abbraccia Roma: “Il suo orrore e anche il suo incubo”, Rosi ha scoperto la saldatura adatta al suo anello. L’ha scovata nelle pause, nei silenzi inattesi e nel sogno perché-dice in un pomeriggio romano di sigarette esorcizzate senza convinzione-“fumo troppo, dovrei smettere”, suonatori ambulanti, sirene e caldo innaturale: “La dimensione poetica dei miei personaggi non è data dal mio sguardo, ma dal loro. Gente che ha in comune una fortissima identità in uno spazio che ne è privo”.
Sacro Gra le cambierà la vita?
Noncambieràilmiomododiguardareorapportarmiallavoro. Ma sarà più facile iniziare un progetto, trovare il denaro per girare e forse, messa nell’angolo la timidezza, bussare a qualche porta finora inaccessibile. Mi piace molto insegnare. Per ora ho potuto farlo soltanto a Ginevra. Fino a ieri quando mi presentavo e scorrevo la lista dei miei film, trovavo sorrisi di circostanza e ammissioni sincere: “Non li abbiamo visti”. Dopo il Leone d’Oro ho ricevuto proposte da San Francisco, dalla Russia e dall’Australia. Da qualche parte andrò.
Se la chiamasse il Centro Sperimentale?
Risponderei con entusiasmo. Per ora, in 20 anni, con l’eccezione di un bellissimo periodo aquilano nei mesi del post-terremoto a cui il Centro contribuiva, non è mai accaduto.
Lei lavora con costi ridottissimi.
Osservando un’inquadratura molto particolare, una finestra ripresa dal di fuori, Le Monde ha scritto: “Si vede che dietro il Gra di Rosi c’è un budget considerevole”. Mi è venuto da ridere. In realtà ho girato quella scena da una scala d’emergenza, appoggiando semplicemente la telecamera. Sacro Gra è un piccolo film giocato, non solo economicamente, su sospensione e sottrazione. Non è costato quasi nulla e se escludiamo le persone che hanno avuto la generosità di farsi riprendere, alla realizzazione ha lavorato una troupe minuscola. Io, il produttore creativo Dario Zonta, preziosissimo, il mio aiuto regista, Roberto Rinalduzzi, Riccardo Spagnol, Giuseppe D’Amato, Fabrizio, Federico, tutti i ragazzi della postproduzione e Jacopo Quadri, il sapiente montatore di tutti i miei lavori. Un artista con il quale a seconda delle lune, litigo e poi faccio pace. Quando inizio un’opera, desidero una cosa sola.
Quale, Rosi?
Non sapere mai dove mi porterà. Amo il documentario perché permette una libertà impagabile e offre infinite strade per sperimentare. Domani posso partire senza produttori, soldi, legami o obblighi che non siano quelli di perseguire l’idea iniziale cercando un linguaggio sempre nuovo. È percorso molto lungo, legato alla scoperta e all’avventura. Per Boatman ho vissuto in India 5 anni. Per Below sea level, 4 nel deserto.
Ora, per “Sacro Gra”, 24 mesi sul raccordo.
Un labirinto da cui uscire o da cui, al contrario, non uscire mai. Proprio sul Raccordo, quell’uomo meraviglioso di Renato Nicolini mi sussurrò una traccia: “Lascia che il Gra si apra e diventi una rete infinita”. Aveva ragione. Il mio Raccordo doveva perdere la mappatura originaria di Niccolò Bassetti, l’urbanista che per primo ebbe l’idea del film e camminò per 300 chilometri cercando di coglierne le contraddizioni. Doveva volare per liberarsi e restituire altro. Il vuoto e la follia di una città in cui tra un pantano centrale e una periferia abitata da quasi 3 milioni di persone che tutti regolarmente ignorano , non esiste comunicazione.
Sul Gra si raccontano leggende meravigliose.
Nicolini giurava che sul Raccordo, a bordo di un pulmino, si fosse persa un’intera squadra di calcio giovanile. Renato mi fece capire che discutevamo di un luogo magico, diun’astrazione, di una Roma stratificata che si perde in mille rivoli e un monolite, anche volendo, non può esserlo.
I suoi personaggi non sono classificabili. Come ha fatto a trovarli? A convincerli?
Quando giro so che è il momento giusto per farlo e per saperlo, la prolungata convivenza è fondamentale. Il resto è incontro, stretta di mano, pazienza, innamoramento reciproco.
Lei è nato ad Asmara e in Africa ha vissuto. Se le chiediamo qualcosa di quel periodo violiamo un tacito patto?
Non ci sono mai tornato e forse, per paradosso, ora che ci penso, il mio prossimo film dovrei farlo proprio lì. Il passato, prima o poi, è giusto affrontarlo. Pensi che durante la lavorazione di SacroGra, in un momento di debolezza, volevo mollare tutto e tornare in America.
Invece è rimasto.
Mi sono confrontato con questo paese. Dopo tanti anni fuori dall’Italia, era il momento. Mi ha convinto, anzi obbligato, la mia ex moglie.
Ringraziata in diretta, con sfregio alla liturgia consolidata, mentre le consegnavano il Leone.
Se lo meritava. La vita è strana. Non la ringraziai quando a Venezia, anche grazie a Marco Müller a cui devo moltissimo, Below sea level vinse Orizzonti. La distrazione fu la goccia che fece traboccare il vaso. In qualche modo, la separazione prese il via la sera stessa. Mi sono giocato 2 matrimoni con due film. Forse è destino.
O magari solo naturale conseguenza di una scelta artistica. Lei è un apolide rigoroso con la valigia in mano. Starle dietro somiglia a una scommessa.
Ho viaggiato. È vero. Con la mia famiglia passammo molto tempo anche in Turchia. Mio padre era dirigente della sezione esteri di una banca appartenuta all’Iri.
E lei?
Dopo qualche mese a Pisa, frequentando Medicina, scappai dall’Italia a 19 anni per studiare cinema a New York.
“Below sea level” è ambientato a Slab City, ex base californiana dell’esercito, rifugio da mezzo secolo del nomadismo hippie già messo in scena da Sean Penn nel suo “Into the wild”.
Ho vissuto a lungo nella comunità in una crisi totale, come un dropout. Senza denaro né direzione. Avevo bisogno di non raccontare ciò che ero stato e la bellezza di quel luogo consiste proprio nell’assenza di domande inutili. Lì nessuno pretende di sapere chi sei. Chi sei stato. Come hai assorbito le ferite del passato o cosa ti aspetti dal presente. Un intervallo dal reale che amo e cerco sempre di applicare ai miei personaggi. Devono colpire alla pancia e non raccontare troppo. Di loro intuisci qualcosa senza che siano mai descritti fino in fondo.
Slab City e il Gra sono non luoghi?
Luoghi precisissimi, al limite trasformati in pretesti narrativi. Ma per favore, smettiamola con la definizione di Augé. Quando non si sa cosa dire, magicamente, ecco il ‘non luogo’. Augé ci ha rotto i coglioni per 30 anni con la sua formula e poi ha dato alle stampe un libro per negare persino che esistesse. Quando l’ho saputo mi sono sentito un assoluto deficiente, ma adesso ci sto attento e ‘non luogo’, garantisco, non mi scappa più.
Trovare un ‘cast’ è difficile?
Forse è la montagna più ripida di un documentarista. Puoi cercare per anni e trovare un volto all’improvviso, con la straniante consapevolezza che il film riuscirà solo se sarà quel profilo e solo quello a interpretare la tua fantasia. All’epoca di Boatman, un documentario che girai sulle rive del Gange, incontrai il barcaiolo giusto per raccontare la storia proprio la mattina in cui abbandonata la cinepresainunalberghetto,avevodeciso di concedermi un giorno da turista.
E cosa fece?
Nel ’93 non c’erano quasi cellulari e per sperare nella riuscita di un’impresa così labile, bisognava credere davvero e pregare con eguale intensità. Tra una trasvolata e l’altra, tornando in India, tremavo nel timore di non ritrovare lo stesso barcaiolo.
Però lo trovò.
Riuscendo a ricreare e a far rivivere per immagini la medesima emozione che avevo provato il giorno in cui l’avevo incontrato.
Per certi miracoli serve flemma?
Fideismo. A volte il materiale, per mancanza di fondi, rimane in cantina per mesi. Altre il film muore senza un perché.
C’è qualche film morto senza un perché?
Si intitola Oakland is not for burning. Parte del materiale, girato in uno stupendo Super 16, è bloccato in qualche landa imprecisata per problemi legali. Ma io sogno di riprenderlo. È la storia di Steve, un traslocatore di pianoforti che un giorno vede il suo patrimonio andare in fumo nelle fiamme di un deposito. Ma il pianoforte è un oggetto indistruttibile, le carcasse mantengono inalterata la struttura e Steve le recupera per portarle nel deserto e lì costruire, con i resti, una nave nel nulla messa a repentaglio dal vandalismo gratuito. Un eroe herzogiano. Vuole sapere come lo conobbi?
Certo.
Ero nel deserto, sotto la pioggia, con il camper impantanato nella pioggia e il frigo vuoto. Di un’amicizia volata via lasciandomi solo come un cane erano rimaste due prosaiche testimonianze. Una bottiglia di vino rosso e un pacchetto di sigarette. Fuori diluviava. Ho bevuto e ho acceso una sigaretta per la prima volta nella vita. Poi, quando il cielo si è stancato di buttare acqua, il vino è finito, l’ultimo mozzicone si è spento e la malinconia è evaporata, sono uscito all’aria aperta. Percorro un chilometro e mezzo a piedi e incontro Steve. Così l’ho conosciuto. Nel mezzo di un’emergenza.
Le sue sono fiabe. Ha mai pensato di girare un film di finzione?
Ho qualche modello di riferimento, ad esempio Cassavetes, ma sono sicuro che non sarei un bravo regista di fiction. Dovrei lavorare in un modo che non mi è congeniale e francamente, non ne ho nessuna voglia. Se lo immagina un produttore a cui proponi anni di studio prima di sentir pronunciare il primo ciak?
La considerano geniale ma pazzo?
Non ho idea di come mi vedano, ma è la mia way of life e a quasi 50 anni, cambiare è impossibile. Per rassicurarli, convincerli ad affidarmi i loro soldi senza dover aspettare 10 anni per un risultato e aiutarli a considerarmi meno pazzo, potrei fare una serie di ritratti.
Portraits.
Suona bene, no? In Cina, in Indonesia, ovunque. Slegati l’uno dall’altro. I miei personaggi non hanno mai una collocazione e come in SacroGra, è il luogo a riflettersi nelle loro esistenze e non viceversa.
Le interessano solo i dimenticati?
Nient’affatto. Come si chiama quello della Lega? Borghezio? Ecco, un anno con Borghezio al fine di ritrarlo lo passerei gratis. Pensi che meraviglia. Idem per Berlusconi in comunità. Per un film del genere lavorerei 24 ore al giorno. Se ho filmato un sicario, posso permettermi di documentare anche Borghezio o Berlusconi. (Ride).
Curzio Maltese ha dedicato a Sacro Gra una critica severa. Non incasserà, giura e per giunta, assicura, dopo aver minacciato gli spettatori avvertendoli di armarsi di santa pazienza, non colpisce al cuore.
Ammesso e non concesso che il valore di un film si giudichi dal risultato al botteghino, Sacro Gra, disgraziatamente, è il primo incasso per media copia nel fine settimana davanti anche a Rush. Ascolto le critiche, le rispetto e della polemica miserabile non mi importa nulla, ma Maltese che pur essendo un assiduo lettore di Repubblica non avevo mai letto prima d’ora, deve avere qualche problema con il libero arbitrio. Scrive che la trama stenta a decollare in un film che ne è volutamente privo. Il suo pezzo trasuda acrimonia, è come se parlasse male di una festa a cui non è stato invitato. Non è questo il modo di sostenere il cinema italiano, la sua complessità, la profonda novità del documentario.
C’è anche chi si accontenta di non farsi domande.
E quelli stanno bene, meglio di tutti gli altri.
Altra critica, Pupi Avati questa volta: “Il premio a un regista che non ha mai diretto un attore denuncia lo stato di crisi del cinema italiano”. E ancora: “Il documentario è l’antitesi dell’arte”.
I detrattori del jazz sussurravano sprezzanti: ‘è musica da negri’. So che Avati ama molto il jazz, ma commette lo stesso errore quando parla del documentario. Dire che il documentario non è cinema è come sostenere che il jazz non è musica perché non ha lo spartito. Il documentarista è come un jazzista, improvvisa lavorando con il reale. E rifiuta l’idea che l’arte cinematografica abbia bisogno di una messa in scena per esprimersi. Tutti i personaggi dei miei film sono persone reali che – come diceva Eschilo – recitano senza sapere di recitare, rappresentando se stessi.
Qual è il suo segreto, Rosi?
Essere me stesso.
Giacca, asole consumate, foulard al collo, talento, spessi occhiali dalla montature improbabili.
Il foulard ho iniziato a metterlo nel deserto. Il sole mi bruciava e dovevo difendermi. Sul resto, fingere di essere altro da sé è infruttuoso e disonesto. Ti scoprono sempre. Sa cosa mi dicevano i protagonisti di Below sea level?
Cosa?
You know why we like you? Because you don’t try to be like us. Ci piaci perché non provi a essere come noi.