Francesca Montorfano, Corriere della Sera 24/9/2013, 24 settembre 2013
GLI IRASCIBILI DELLA TELA
Sono vestiti in modo formale, «da banchieri», i diciotto artisti ritratti nel celeberrimo scatto di Nina Leen, pubblicato nel 1951 dalla rivista «Life». Ma sarà proprio quest’immagine, solo all’apparenza bonaria, ancor più della lettera inviata al direttore del Metropolitan Museum of Art, a esprimere la protesta del gruppo contro un’ingiustizia intollerabile, l’esclusione degli espressionisti astratti da una delle più importanti mostre sulla pittura americana contemporanea.
Definiti «irascibili» dall’«Herald Tribune», guardati con diffidenza da pubblico e critica che non ne comprendevano la portata innovativa, i diciotto — tra i quali Pollock, De Kooning, Rothko, Motherwell, Newman, Baziotes, Brooks, Hofmann, Still o Hedda Sterne, l’unica donna — avrebbero tuttavia dato vita a un fenomeno dalla forza prorompente, destinato a caratterizzare l’America del secondo dopoguerra e a influenzare l’arte moderna di tutto il mondo. Un linguaggio nuovo, libero, americano, che avrebbe segnato lo stacco definitivo dagli influssi delle avanguardie e dei movimenti novecenteschi europei, dall’eredità del Cubismo come dal dominio del Surrealismo. Che avrebbe sancito la consacrazione di New York a capitale artistica mondiale e aperto la strada a un impiego assolutamente rivoluzionario del segno, del gesto, del colore.
Le sperimentazioni e gli altissimi esiti pittorici di quella che venne definita la «Scuola di New York», o anche «Action Painting», sono oggi al centro della rassegna di Palazzo Reale — curata da Carter Foster con la collaborazione di Luca Beatrice — che vede riuniti quasi cinquanta lavori del gruppo, con capolavori assoluti quali il famoso «Number 27» di Pollock, cui è riservata un’intera sala, a delineare quel periodo della grande arte americana che dalla fine degli anni Trenta arriva alla metà dei Sessanta. «Si tratta di un evento di particolare rilevanza — dice Luca Beatrice — proprio perché tutte le opere provengono dal Whitney Museum, istituzione che più di ogni altra ha appoggiato il movimento, consentendone una lettura esauriente e sfaccettata, dando voce a quegli artisti che fecero fronte comune, uniti dalla stessa sensibilità verso un’arte in grado di rielaborare la realtà in forme astratte ed espressive, verso una pittura che potesse trasferire sulla tela le pulsioni e le energie psichiche più profonde attraverso l’enfatizzazione del gesto».
Il co-curatore aggiunge: «Protagonista di primo piano dell’evento sarà Jackson Pollock, l’artista che ha trasformato la pittura in body art, difficile e geniale, romantico e maledetto. Un personaggio dalle straordinarie capacità mediatiche, ma anche dalla forza autodistruttiva, che ha saputo incarnare il mito dell’eroe ribelle americano, come Marlon Brando, come il giovane Holden di Salinger, morendo al volante della sua auto, come soltanto un anno prima di lui aveva fatto James Dean». Numerosi i lavori di Pollock in mostra, dai disegni senza titolo degli anni 1933-39 che esplorano la trasformazione, quasi una regressione, da un sé ancora «civilizzato» a creatura selvaggia, primordiale, alle opere della maturità quando la pittura su cavalletto è ormai lontana e l’artista lavora a terra, sentendosi dentro la tela, diventata spazio infinito di libertà e di azione, versando direttamente il colore dal barattolo, lasciandolo sgocciolare con un pennello o un bastone (dripping), facendo corrispondere ogni movimento del corpo a un segno. Ma se Pollock è la figura chiave, gli altri sono comprimari.
Così Mark Rothko, che dell’astrazione ha dato originali soluzioni estetiche con le sue distese di colore a strati, in mostra con capolavori quali «Untitled» (Blue, Yellow, Green on Red) o Willem de Kooning, capace di passare dall’attenzione alla figura, seppur quasi indistinta come in «Woman Accabonac», a composizioni più astratte e gestuali, guardando in modo nuovo anche al paesaggio. Così Arshile Gorky, l’artista per le sue forme biomorfiche più legato al Surrealismo europeo; o Franz Kline, interessato alla città e ai suoi grattacieli che traduce in rigorose astrazioni bianche e nere; Bradley Walker Tomlin, con «Number 2» (1950) dove la linea pittorica è influenzata dalla calligrafia orientale; o Robert Motherwell con opere di grande rilievo, come «The Red Skirt», dove la figura appare quasi imprigionata in una costruzione geometrica.
Ma gli anni d’oro dell’Espressionismo americano sono ormai alla fine. A imporsi sullo scenario newyorkese sono adesso le composizioni piatte e smaltate di un giovane di Pittsburg, Andy Warhol, figlio di emigrati europei. Il Pop è nato.
Francesca Montorfano