Aldo Grasso, Corriere della Sera 24/9/2013, 24 settembre 2013
BARTALI IL GIUSTO
«Gino il Giusto». Gino Bartali è stato dichiarato ieri «Giusto tra le Nazioni» dallo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, il massimo riconoscimento attribuito a persone che durante le persecuzioni nazi-fasciste hanno rischiato la vita per salvare anche solo un ebreo.
Bartali ha contribuito a salvare famiglie perseguitate durante l’occupazione nazifascista: ha pedalato anche per loro, corriere e latore di documenti falsi di una rete clandestina che aiutava centinaia di ebrei nascosti negli istituti religiosi e nelle abitazioni di famiglie coraggiose del Centro Italia. «Fingendo di allenarsi — ha spiegato il figlio Andrea —, il mio babbo trasportava documenti falsi, nascosti nei tubi del telaio o del manubrio, per dare una nuova identità a persone perseguitate dalle leggi razziali e minacciate dalle deportazioni nei campi di concentramento».
Par di vederlo, Ginetaccio, divorare gli 82 km che separano la stazione di Terontola-Cortona (dove si era rifugiato come riparatore di bici fra il settembre 1943 e il giugno 1944) dalla Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Non erano allenamenti, ma azioni eroiche e la sua faccia (la faccia del campione, «quel naso triste come una salita/ quegli occhi allegri da italiano in gita», come canta Paolo Conte) serviva da salvacondotto, mentre divorava i posti di blocco come fossero traguardi volanti.
In vita, Bartali non ne ha mai parlato: «Certe cose si fanno ma non si dicono». C’è voluta una tesi di laurea del 2003, «La Seconda guerra mondiale di Gino Bartali: ebrei, cattolici e dissidenti tra Umbria e Toscana 1943-1944», di Paolo Alberati (oggi consulente sportivo e procuratore di atleti), per riportare alla luce questa storia fuori dell’ordinario (ripresa anche dalla fiction «Bartali. L’intramontabile» del 2006, dove però il taglio agiografico trasformava il campione in una sorta di Padre Pio della bicicletta). Scavando nei segreti del Vaticano, alla curia di Firenze, nel convento San Quirico di Assisi e negli archivi del Coni, si è scoperto che il campione «ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’arcivescovo della città, cardinale Elia Angelo Dalla Costa».
Se Fausto Coppi ha finora raccolto più attenzione di Gino Bartali è solo perché è stato il primo grande eroe nazional-popolare dell’Italia moderna, cioè un fantasma temibile e tormentato inseguito dalla fama, dalla stampa scandalistica, dalla radio, dai cinegiornali, in una parola, dai media. Lui, il rivale, era semplicemente Gino il Pio (allora nessuno avrebbe potuto immaginare la vita nascosta di Gino il Giusto). Come teorizzava Curzio Malaparte nel 1949: «Bartali è il campione di un mondo già scomparso, il sopravvissuto di una civiltà che la guerra ha ucciso... Coppi è il campione maturato dalla guerra e dalla liberazione: egli rappresenta lo spirito razionale, scientifico, il cinismo, l’ironia, lo scetticismo della nuova Europa, il loro credo materialista...». Su Bartali e la sua pietas pesa poi la leggenda dell’attentato a Palmiro Togliatti. Vincendo tre tappe alpine al Tour del ’48 si dice abbia scongiurato la guerra civile, la presa del potere dei comunisti. Non è vero; di vero però c’era la riconoscenza eterna di Pio XII e dei vertici democristiani, il rosario di attributi salvifici: ciclista della provvidenza, salvatore della patria, arcangelo della montagna...
Bartali baciapile, paolotto si diceva allora, e Coppi trasgressore, irretito dalla Dama Bianca, fedifrago ma libero pensatore e dunque «moderno». Bartali teneva appuntato sulla giacca il distintivo dell’Azione Cattolica e Indro Montanelli lo descriveva come il «De Gasperi del ciclismo». Si deve a Malaparte l’invenzione di Coppi e Bartali come i due volti contrapposti dell’Italia: l’Italia contadina e bigotta, l’Italia progressista e razionalista: «Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppi a coloro che credono al progresso. Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro campo. Bartali crede all’al di là, al paradiso, alla redenzione, alla resurrezione, a tutto ciò che costituisce l’essenza della fede cattolica. Coppi è un razionalista, un cartesiano, uno spirito scettico, un uomo pieno di ironia e di dubbi che confida solo in se stesso, nei propri muscoli, nei polmoni, nella buona sorte».
Malaparte si abbandonava a un’epica moderna (Bartali e Coppi come Ettore e Achille), cercava il confronto ad effetto, si aggrappava alle facili ideologie (lui che nella vita ne aveva indossate e smesse parecchie con altrettanta facilità) e faceva torto soprattutto a Bartali. «Gino il Pio» è stato un uomo semplice che per resistere alla classe e alla complessità psicologica di Coppi a volte ha dovuto farsi violenza, dotarsi di una corazza che lo ha reso più archeologico del dovuto. Ma mentre gli altri si abbandonavano alla retorica, lui pedalava «pur a conoscenza dei rischi che la sua vita correva, per aiutare gli ebrei».
Quando nel 1955 abbandonò le corse, Dino Buzzati scrisse sul Corriere: «Bartali è stato il vivo simbolo del lavoro umano. Ha lavorato fino all’ultimo, badando a fare tutto il suo dovere meglio che gli era possibile. Ecco la grande lezione di umile onestà». Tutto il suo dovere e anche qualcosa di più.