Alberto Alesina; Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 24/9/2013, 24 settembre 2013
LA PRIGIONIA DEI NUMERI
L’economia cresce meno di quanto il governo prevedesse solo pochi mesi fa, e i conti pubblici peggiorano. In aprile Monti stimava, per quest’anno, una caduta del reddito dell’1,3%: ora la stima è -1,7%. E così, come era facile intuire, per mantenere il deficit 2013 al di sotto del 3% si dovrà ricorrere a una manovra correttiva.
Il presidente del Consiglio dà la colpa all’instabilità politica. Come se, senza di essa, miracolosamente l’economia si sarebbe ripresa. Magari fosse così semplice! Le ragioni per cui non riusciamo a superare la recessione sono ben più profonde. Non troviamo il coraggio di attuare le riforme di cui discutiamo invano da almeno un paio di decenni: lavoro, burocrazia, concorrenza e soprattutto una minore pressione fiscale. In tre anni essa è salita dal 46,1 al 48,9 per cento, mentre le spese delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi continuano a crescere: un punto in più del Prodotto interno lordo (Pil), in un triennio. Solo nel 2013 il Documento di economia e finanza (Def), pubblicato la scorsa settimana, stima che la spesa al netto degli interessi aumenterà di circa 10 miliardi, da 714 a 724 miliardi.
Enrico Letta reagisce a questi dati proponendo la solita ricetta. Altre tasse e qualche artificio contabile come l’anticipo a novembre di alcune imposte dovute l’anno prossimo. E niente riforme. Quando si convincerà che è una ricetta che non funziona?
Monti non riuscì a fare le riforme, ma almeno ci provò: l’attuale governo pare non provarci neppure.
Spendiamo, al netto di interessi, pensioni, sanità e interventi sociali circa 250 miliardi l’anno: possibile che non se ne possano risparmiare 3 per evitare l’aumento dell’Iva? Che fine ha fatto il progetto, fortemente sostenuto da Confindustria, di tagliare i sussidi alle imprese in cambio di minori tasse sul lavoro? Sono quasi 10 miliardi l’anno, come conferma un’analisi della Ragioneria generale dello Stato.
Il governo dice che la ripresa dell’occupazione richiede una forte riduzione delle tasse sul lavoro. Giusto, ma bisogna capire l’ordine di grandezza. Il ministro del Lavoro Giovannini punta a una riduzione del cuneo fiscale (la differenza tra ciò che paga l’impresa e quanto va in tasca ai dipendenti) di 5 miliardi: ne servono 50 per portarlo al livello tedesco.
Un governo che avesse il coraggio delle proprie convinzioni, anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse, proporrebbe a Bruxelles una riduzione immediata della pressione fiscale di 50 miliardi, accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali della spesa, e riforme coraggiose da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%, come in Francia. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. E soprattutto, riducendo i sussidi improduttivi, liberalizzazioni, mercato del lavoro e riduzioni della spesa, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita.
Ma se la politica e il governo non hanno questo coraggio, allora ha ragione il ministro Saccomanni a mantenersi ancorato al principio del 3%. Instaurare un circolo virtuoso richiede tagli, riforme e alleggerimenti del carico fiscale che farebbero crescere Pil e occupazione, e scendere il deficit. Ma di tagli e riforme non si vede traccia.