Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 23 Lunedì calendario

NERVAL BRACCA LA REGINA DI SABA NEI LABIRINTI DELL’ORIENTALISMO

Il 1° gennaio 1843, Gérard de Nerval partì per l’Oriente. Voleva cancellare il ricordo delle crisi di follia che dal febbraio al novembre 1841 l’avevano rinchiuso in due case di cura per malattie mentali. Lo dicevano pazzo. Non era pazzo, sosteneva Nerval: o almeno, la sua cosiddetta pazzia, gli permetteva di scrivere, di lavorare, di viaggiare e di comprendere moltissime cose, che i cosiddetti «sani» non comprendevano. Scriveva al padre, Étienne Labrunie, lettere di un’intensissima tenerezza. Nel padre vedeva riflessa la madre, che era morta quando egli aveva due anni, nel novembre 1810, ed era stata sepolta nel cimitero cattolico di Gross-Glogau, in Polonia. Egli sognava di continuo la madre: la vedeva rispecchiata in Iside, Maria, la regina di Saba, nelle donne amate; andava a visitare la sua tomba; ed era rimasto «il Vedovo, l’Inconsolato … il principe di Aquitania dalla Torre abolita». Il padre non lo amava, e rifiutò sempre di prendersi cura di lui, nemmeno quando era poverissimo e disperato.
Il 16 gennaio Nerval arrivò ad Alessandria d’Egitto: il 7 febbraio al Cairo, dove rimase fino al 2 maggio, e di lì, attraverso la Siria, giunse a Costantinopoli il 26 luglio. Fu la rivelazione del sole: «Veramente il sole è molto più brillante in Egitto che nel nostro paese: mi sembra di aver visto questo soltanto nella prima giovinezza, quando gli organi erano più freschi». Se continuava a vivere sulle rive dell’Asia, risaliva il corso del tempo, e aveva soltanto vent’anni. Ma, per lui, non poteva esistere la pura visione del sole. Qualche volta il sole d’Egitto sembrava far fatica a sollevare le lunghe pieghe di un lenzuolo funebre grigiastro, e appariva pallido, come Osiride sotterraneo. Ricordava la stampa di Dürer: «Il sole nero della melanconia che versa dei raggi oscuri sulla fronte dell’angelo sognante di Alberto Dürer, a volte si leva anche sulla pianura luminosa del Nilo, come sui bordi del Reno, in un freddo paesaggio della Germania». Il sole nero della malinconia è il cuore del romanticismo tedesco e francese: discende da Jean Paul, a Gautier, fino a Nerval, Hugo, Baudelaire, Rimbaud, per riemergere nella Recherche.
Il viaggio in Oriente si chiuse con una rinuncia all’Oriente. Alla fine dell’agosto 1843, tre mesi prima di ritornare in patria, Nerval scrisse una lettera a Théophile Gautier. «Tu, tu credi ancora all’ibis, al loto di porpora, al Nilo giallo; tu credi alla palma di smeraldo, al nopal, forse al cammello… Ahimè, l’ibis è un uccello selvaggio, il loto una cipolla volgare; il Nilo è un’acqua rossa dai riflessi d’ardesia, la palma ha l’aria di un piumino gracile, il nopal è soltanto un cactus, il cammello non esiste che nella condizione del dromedario». Il Cairo vero, l’Egitto immacolato, l’Oriente fuggitivo, Nerval li conosceva prima di averli percorsi: il vero Oriente lo portava in cuore e nei balletti dell’Opéra, che tanti anni prima aveva visto insieme a Gautier. Pagina meravigliosa che riassume Nerval e l’Ottocento.


* * *
All’inizio del 1851, sette anni dopo il ritorno da Costantinopoli, Nerval firmò un contratto con l’editore Charpentier per il Viaggio in Oriente. Voleva denari. Raccolse moltissimi articoli che aveva pubblicato sulle riviste e i giornali: pagine di viaggio, riflessioni, ricordi, racconti, pagine poetiche, romanzi. Ci lavorò sei mesi. Alla fine dalle sue cure amorose nacque un fittissimo e bellissimo libro, dove tutte le pagine si rispondevano e si richiamavano. Nel 1850 aveva pubblicato sul «National» la Storia della regina del mattino e di Solimano principe dei geni, attribuendola ironicamente ai narratori che declamano i loro racconti nei caffè di Costantinopoli. La inserì nel Viaggio in Oriente, e la ristampò nel 1853, sul «Pays», sotto il titolo: La regina di Saba. In questi giorni, la seconda redazione, molto simile alla prima, esce da Adelphi, con l’introduzione e la traduzione (entrambi eccellenti) di Giovanni Mariotti (pp. 200, € 14).
La prima fonte della Regina di Saba è la Genesi. L’autore della Bibbia disegna le due razze dell’umanità. La prima, quella di Adamo, genera Set, Enosh, Qenan, Lamec fino a Noè. La seconda, quella di Caino, genera Henoc, Irad, Jabal, Jubal, Tubal-Caino: tra di essi c’è il «costruttore di città», il «padre di tutti quelli che suonano la cetra e il flauto», il «fabbro, padre di quelli che forgiano il rame o il ferro»; dunque i creatori dell’architettura, della musica e della scultura discendono esclusivamente dal primo assassino della storia. Qualcuno ha supposto che, insieme a Caino, la Bibbia, nel sogno della pura agricoltura, condanni tutte le arti. Non è vero: i grandi artisti cainiti, Henoc, Jubal, Tubal-Caino sono innocenti. La razza di Caino non è segnata dalla terribile colpa del predecessore.
Secondo la Regina di Saba, le tradizioni sono diverse. I Figli del Fango discendono da Adamo ed Abele, e sono protetti da Geova: i Figli del Fuoco discendono da Eblis (il satana arabo), da Caino e da Tubal-Caino. I Figli del Fango hanno il potere e la gloria terreni: sono vanitosi, arroganti, senza sostanza, fintamente saggi; soltanto alla fine del racconto, Solimano diventa signore degli uccelli e dei geni. I Figli del Fuoco hanno una specie di apoteosi nella figura di Adoniram, un grande architetto e fabbro, una specie di Michelangelo orientale. Egli cerca di ripetere le sculture delle origini preadamite: guidato da Tubal-Caino, scende nel cuore della terra, dove si incontra la stirpe di Caino ed è possibile nutrirsi con i frutti degli alberi paradisiaci. Solo col suo genio, Adoniram incarna la solitudine, l’esclusione, la dispersione, il vagabondaggio, il sapere, il disprezzo, la speranza: il suo ultimo figlio è Gérard de Nerval, che intitola alla sua razza un libro di racconti, Le figlie del fuoco.
La regina di Saba, da cui il libro prende il titolo, aveva abitato tutta la vita di Nerval: egli aveva cercato di ritrovare l’immagine della divinità dei suoi sogni, rappresentandola su un foglio, impregnato del succo di una pianta. Era stata la madre, Iside, Maria, la donna dell’Apocalisse, pronta a salvare il mondo, e le sue amate misteriose e infantili. Ora, qui, la regina di Saba ha «una maestà di dea, la malia di una bellezza inebriante, e un corpo flessuoso». Mentre gorgheggia con Solimano e Adoniram e civetta mostrando il suo piedino, ci ricorda sopratutto un’attrice di teatro, che abbia salito le scene negli anni di Nerval. Ma tutto, nella Regina di Saba, sa di teatro. Come scrive Giovanni Mariotti, non è nella Gerusalemme di Solimano che ci troviamo, ma a Parigi, negli anni tra il 1840 e il 1850, al teatro dell’Opéra: in un capolavoro di Meyerbeer, con recitativi, arie, cori, balletti, bellissime scenografie pronte ad accogliere i grandi movimenti di folla.


* * *
Quando era giovane, i suoi amici — Alessandro Dumas, Théophile Gautier e Auguste de Belloy — parlavano di Nerval con un «ricordo dolce e leggero come un profumo». Aveva un viso bianco e rosa pronto a arrossire come una fanciulla, ravvivato da occhi grigi, che l’intelligenza animava di una scintilla dolcissima. La fronte alta, che si intravedeva sotto i bei capelli biondi ed esili, era levigata come l’avorio e la porcellana. Quando usciva, portava di solito una specie di finanziera di stoffa nera e lucida con ampie tasche, da cui straripava una biblioteca di libricini racimolati qua e là, cinque o sei taccuini di appunti, nei quali scriveva, con una scrittura sottile e fitta, le idee che gli balenavano durante le lunghe passeggiate. Nulla eguagliava la dolcezza del carattere di Nerval: la grazia, la distanza, la benevolenza, la modestia; il silenzio o, meglio, il silenzio sopra sé stesso. La sicurezza della sua parola era tale che nemmeno nei periodi di follia gli sfuggì mai una parola compromettente. Quando, negli ultimi anni, dovette lottare contro le necessità più crudeli della vita, il suo comportamento sorridente, la sua conversazione sempre lieta, mai distratta, non lasciavano trasparire le sue terribili angosce.
Gli anni si seguirono velocissimi, seguiti dal nome delle case di cura che proteggevano la mite follia o il «delirio furioso» di Nerval: febbraio-novembre 1841: maggio 1849: giugno 1850: settembre-novembre 1851: gennaio-febbraio 1852: febbraio-marzo 1853: agosto 1853-maggio 1854: agosto-ottobre 1854; spesso nella clinica del dottor Esprit Blanche e di suo figlio Émile. Il 19 ottobre 1854 riuscì a uscire dalla clinica Blanche di Passy, grazie all’intervento di alcuni amici. Sebbene fosse trattato come un famigliare, Nerval non sopportava l’isolamento e l’internamento, che lo rinchiudevano nel cerchio troppo stretto delle sue ossessioni. Aspettava un beneficio soltanto dai viaggi e dalle passeggiate: nell’estate 1854 fu in Germania e forse in Polonia. Il dottor Blanche lo raccomandò ai parenti. Il padre rifiutò di occuparsene. La zia Labrunie si impegnò a riceverlo a casa sua a Passy, fino a quando non avesse trovato casa. In realtà, Nerval fuggì qualsiasi controllo, abitando nei piccoli, miserabili alberghi di Parigi e di Saint-Germain.
La cosa straordinaria, e quasi incomprensibile, è che proprio negli ultimi mesi, passati tra un delirio e un altro, errante, vagabondo, dolcemente disperato Nerval abbia scritto il suo capolavoro: Aurélia, pubblicato in parte dopo la sua morte. L’inizio dice: «Il Sogno è una seconda vita. Non ho potuto oltrepassare senza fremere quelle porte d’avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile. I primi istanti del sonno sono l’immagine della morte»: pagina meravigliosa, da cui Proust trasse l’inizio, ugualmente meraviglioso, della Recherche. Aurélia è stato composto in una zona altissima, superiore alla ragione e alla follia, che domina e bagna di sé sia i campi beati e furiosi della Follia, sia quelli aguzzi e lancinanti della Ragione.
Degli ultimi mesi e giorni di vita ci è rimasto qualche ricordo, innocente e tremendo. Il 24 ottobre 1854, appena uscito dalla casa di cura, scrisse a Antony Deschamps, anche lui curato dal dottor Blanche: «Mio caro Antony, tutto è compiuto. Non ho più da accusare che me stesso e la mia impazienza, che mi ha fatto escludere dal paradiso. Ormai lavoro nel dolore». Il 24 gennaio, due giorni prima del suicidio, scrisse alla zia Labrunie: «Mia buona e cara zia dissi a tuo figlio che sei la migliore delle madri e delle zie. Quando avrò trionfato di tutto, tu avrai il mio posto nel mio Olimpo, come io il mio posto nella tua casa. Questa sera non mi attendere, perché la notte sarà nera e bianca». Il 20 gennaio Gautier e Du Camp lo videro alla «Revue de Paris» senza cappotto. Il 24 gennaio passò la sera da un’attrice e la notte all’aperto. Il 25 gennaio si fece imprestare sette soldi da Asselineau e si presentò al Théâtre-Français. Cenò in un cabaret delle Halles. C’erano diciotto gradi sotto zero. Sulle strade cadeva la neve, mentre Nerval attraversava la città senza cappotto.
Del suicidio di Nerval conosciamo sopratutto i luoghi reali e fantastici, come li raccontava Alessandro Dumas. La rue de la Tuerie, la rue de la Vieille-Lanterne: una scala vischiosa e stretta con una rampa: la bottega di un fabbro che aveva per insegna una grossa chiave dipinta in giallo, un corvo (certo, quello di Poe in Nevermore), che faceva sentire non il suo grido abituale, ma un fischio acuto: una fogna a cielo aperto, chiusa da due griglie: un losco hôtel garni (forse lì a mezzanotte, bussò Gerard, senza essere accolto): una scuderia, che durante la notte dava rifugio agli sventurati troppo poveri per dormire all’hôtel garni; la crociera di ferro di un seminterrato, a cui era legato un laccio. Lì il venerdì 26 gennaio 1855, alle sette e tre minuti del mattino, giusto nell’ora in cui si levava l’alba glaciale, qualcuno trovò il corpo di Gérard ancora caldo. Aveva il cappello in testa; e in tasca le ultime pagine di Aurélia.
L’agonia fu dolce, perché il cappello non gli cadde dal capo. Arrivò un commissario di polizia: un medico gli praticò un salasso; ma Nerval non aprì gli occhi né gettò un sospiro. Il luogo era vicino alla Morgue, dove il cadavere fu deposto accanto a quello di una ragazza, che si era lasciata cadere nella Senna per disperazione d’amore.
Il 1° gennaio 1856, la «Revue de Paris» pubblicò la prima parte di Aurélia. Qualche giorno dopo il redattore incaricato ricevette il manoscritto della seconda parte con l’indirizzo di un alberghetto di rue Saint-Honoré, dove inviare le bozze. Dopo il suicidio le bozze ritornarono alla «Revue de Paris», accompagnate da una nota secondo la quale il destinatario era sconosciuto in quell’albergo. Nerval avrebbe amato moltissimo questa storia, con la sua ultima apparizione-sparizione dalla terra.
Pietro Citati