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 2013  settembre 22 Domenica calendario

CERCO IL SUONO PERFETTO. MA NON ESISTE

S’alza all’alba e corre veloce in bottega. «Perché la notte m’ha spiegato come risolvere il problema di una meccanica, d’un suono». Sergio Griffa si muove come un folletto, dentro a quel suo camice troppo grande, bianco candido, da sala operatoria. Gli occhi s’illuminano: «Il laboratorio artigiano è una sala operatoria, gli apprendisti immaginano che ci sia polvere e disordine, poi entrano qui e leggi lo stupore nei loro volti». Sergio ha 74 anni e per trenta è stato l’accordatore di pianoforte ufficiale della Sala Verdi del Conservatorio di Milano e del Teatro alla Scala. È figlio d’arte: accordatore fu suo padre, Francesco, e prima ancora il nonno Giovanni e il bisnonno Luigi, «organista e negoziante» di Vigono.
L’artigiano è al lavoro: «Lo vede questo Steinway? È tutto manomesso, come accade quando un tecnico cerca di accontentare un pianista e fa modifiche... inaccettabili». Mostra i palmi delle mani sottili, che sembrano trasparenti ma sono d’acciaio: «Con queste ho restaurato il pianoforte di Maria Callas. Quanto ho amato la sua voce... Aveva un Blüthner per studiare, uno strumento armonico con le corde più sottili e lunghe, facile da accordare. Oggi è in Grecia, nel suo museo». Con queste stesse mani cura il suo orto, un hobby irrinunciabile: «Ho un po’ di tutto, dai porri all’insalata, fagiolini e cipolle e carote, tutto quello che può dare. È affascinante vedere i fiori e, poi, i primi frutti diventare grandi».
Nella corte di una vecchia casa di via San Rocco, alle spalle di Porta Romana, s’affaccia il laboratorio «Griffa&figli» e lì da mattina a sera rimbalzano i suoni sgraziati delle corde mentre vengono intonate, melodie e persino concertini. Piegati in due sul somiere a inchiodare caviglie, punzecchiare martelletti fino a renderli morbidi e «pesare» i tasti — «perché quando esegui un pianissimo, se il tasto è troppo duro il ritorno non riesce, se è troppo leggero ne perdi il controllo» — ci sono i figli Davide e Gianfranco, la quinta generazione, e l’assistente Paolo che è anche pianista.
Li osserva lavorare con orgoglio: «Un accordatore deve saper fare di tutto, deve lucidare le scarpe ma anche rifare le suole», dice ricorrendo alla metafora del calzolaio. «Deve saper progettare un pianoforte e, poi, restaurare, perché come ogni strumento musicale invecchia, cambia voce, le corde perdono elasticità. Se è un piano da concerto, vanno cambiate ogni sette o otto anni».
Da una vita Sergio Griffa cerca il suono perfetto, «anche se so che non esiste, anzi non deve esistere. Il suono perfetto è quello matematico, che però è statico, stanca l’orecchio. La bravura di un accordatore, invece, è lasciare che il suono abbia dei movimenti minuscoli, impercettibili». Non ha timori di svelare i suoi segreti d’artigiano. Perciò afferra la chiave per accordare e prosegue: «A ogni tasto corrispondono 3 corde. Le intoni una alla volta. C’è il fissaggio, quando muovi la chiave devi far sì che la "caviglia" dove s’agganciano le corde giri perfettamente assiale sul somiere. Niente trucchi né colpetti. Poi devi suonare quel tasto molto forte: se la corda non si muove nelle tue mani, non si muoverà sotto quelle del pianista». Non gli occorre il diapason per portare il «la», da cui tutto ha inizio, alla giusta frequenza (440 hertz). Un piccolo cuneo di plastica divide una corda dall’altra. «La seconda corda deve essere all’unisono con la prima. La terza no, deve modulare. Un bravo accordatore la sfiora e crea quella sfasatura artificiale che rende il suono interessante». Mosso. Imperfetto.
Anche il Gran coda di Arturo Benedetti Michelangeli ha avuto le sue cure. «Ci sono pianisti che girano il mondo con il loro pianoforte e il loro accordatore, così era Michelangeli che fu un grandissimo conoscitore della meccanica del pianoforte e pretendeva che gli strumenti da concerto fossero in condizioni perfette». Arrivò a portarne addirittura due in tournée e «capitò che si rifiutasse di suonare, annullando il concerto con il pubblico già in sala, perché non erano stati messi a punto in maniera ottimale». Potenza di un genio.
Sergio lascia lo Steinway e ci trascina nella stanza accanto, occupata per metà dal suo Gran coda imperiale Bösendorfer, «la Rolls-Royce dei pianoforti, uno strumento sul quale non puoi improvvisare, perché non nasconde le imperfezioni e ti lascia nudo sul palco». Il Bösendorfer è la freccia di Cupido che ha segnato l’inizio della sua amicizia con il pianista filosofo Giovanni Allevi. «Studiava qui. Si è presentato un giorno, non aveva il pianoforte. Bravo ragazzo, uno che non fa scappare la gente dai concerti ma la fa andare».
Aveva 12 anni Griffa quando restaurò il primo pianoforte. Non era uno strumento qualsiasi. «Una sera papà rimase paralizzato, forse un ictus. Lasciai gli studi e presi il suo posto. Lo avevo osservato lavorare per anni, perché ogni giorno tornato da scuola stavo con lui, a bottega. Proprio in quel momento così difficile, arrivò un Bernstein da restaurare. Era il piano del medico di re Faruk. Lo presi in mano e lavorai giorno e notte: la cordiera, la meccanica, la laccatura del mobile. Mio padre tornò dall’ospedale e vide l’opera conclusa. Sorrise. Riusciva sempre a farmi sentire più grande di quello che ero». Confida di aver imparato «di più dai pianisti che hanno il dono musicale, come Sergio Fiorentino, Bruno Canino. Noi diamo gli hertz al piano, ma è il pianista che intona lo strumento cambiando il tocco».
Bottega, orto, sale da concerto: questo è il suo mondo. «Bisnonno e nonno erano organisti, ma già al tempo di mio padre le professioni di musicista e costruttore-accordatore s’erano divise. Io ho studiato pianoforte, ma per il mio gusto sui timbri non avevo il dono del tocco». L’accordatore è come un medico che segue ovunque e per tutta la vita il suo paziente. «Prepari lo strumento e poi ti fermi ad ascoltare il concerto». Sfiora un altro Steinway del 1913: «La lucidatura del mobile a gommalacca deve essere morbida, non villana. Così l’orecchio riposa quando lo guardi».
Da qualche tempo l’artigiano Griffa ha scelto di lavorare per i bambini. «Accordo il piano di chi comincia a suonare. Nelle sale da concerto ci sono troppi "tecnologi" e poca gente di cuore. Vogliono il suono metallico, brillante». Più è metallico, più è forte, inonda il teatro. «Non come piace a me. E allora penso a Cortot, che saltava le pagine in concerto ma era comunque compreso e amato dal pubblico».
Ci vogliono dieci anni per accordare bene. «L’accordatura è fatta di piccole imperfezioni e in ogni suono dovete sentire tutte le vocali, la "i", la "o" che diventa "u", nasale... come il piano di Horowitz». È un’arte che ancora si tramanda di padre in figlio, anche se Griffa invita a non resistere alle lusinghe della tecnologia: «Mio padre ha inventato il piano trasparente, io oggi perfeziono il matrimonio tra lo strumento classico e l’elettronica, il Silent, per poter suonare ovunque in cuffia, senza disturbare». Ama Chopin («e la sua tavolozza infinita di colori»), ma anche Bach e Mozart e il jazz. «Ho ascoltato Oscar Peterson», virtuoso del pianoforte, uno tra i pianisti jazz più prolifici della storia della musica afroamericana. Ma più di tutto ama sentire le prove: «Lì si impara, quando un buon pianoforte incontra un buon pianista».
Paola D’Amico