Gianluigi Colin, la Lettura (Corriere della Sera) 22/09/2013, 22 settembre 2013
L’AUTOSCATTO DEL PRESENTE
Ennio Flaiano aveva avuto una visione profetica: «Mai epoca fu come questa tanto favorevole ai narcisi e agli esibizionisti. Dove sono i santi? Dovremo accontentarci di morire in odore di pubblicità». Flaiano lo scriveva nel 1973 e i telefonini non avevano ancora invaso la nostra vita. L’Oxford English Dictionary non aveva ancora inserito nel suo vocabolario (come avvenuto ufficialmente mercoledì 28 agosto) una parola che oggi sta diventando il simbolo di un nuovo modello di rappresentazione, o meglio, ricordando le parole di Flaiano, di pubblicità di se stessi: selfie.
Selfie vuol dire letteralmente «autoscatto». Ma selfie non indica un’astrazione. È una parola che ha la sostanza della carne, di un occhio, di una bocca sensuale o stretta, di un volto giocoso, triste, allampanato, distorto, alterato. Ma anche di una banale coscia di pollo fotografata al ristorante, o del proprio piede in riva al mare. Selfie è una mania. Un modello sociale, un sistema comportamentale, una dimensione antropologica. Non a caso ha ora tutti i riconoscimenti mediatici, lessicali e anche accademici. Ma soprattutto è un linguaggio del nostro tempo. Selfie è infatti l’autoscatto realizzato col telefonino, allungando la mano e riprendendosi da soli. Sembra il Pleistocene, quando per farsi da soli una foto bisognava mettere la macchina fotografica, con tanto di pellicola, sul cavalletto, appoggiarla su un muro, impostare il timer e correre a mettersi in posizione. Le immagini che poi si sviluppavano erano surreali: se andava bene, smorfie di attesa e di sofferta inquietudine. La maggior parte delle volte, si arrivava tardi e allora la foto poteva sembrare un’opera di Thomas Ruff: mossa e sfocata.
Per capire meglio di che cosa stiamo parlando è sufficiente fare un giro su qualsiasi social network, da Facebook a Instagram a Pinterest, oppure, senza perdere tanto tempo, basta guardare il profilo e l’album delle foto su Facebook degli amici o dei figli. Si sarà sommersi, travolti, assediati da immagini in cui il tema centrale è soltanto l’autorappresentazione. Messi in fila, sono miliardi di autoscatti, in cui il soggetto è quasi sempre lo stesso: una teoria di volti ripresi nel dettaglio. Volti deformati dal grandangolo, volti stralunati, con smorfie, sorridenti o corrucciati, volti solitari o in compagnia. E, ovviamente meglio, con un personaggio famoso. Selfie diventa la certificazione dell’esistenza mediatica, simulacro di un mondo di realtà simboliche. Che, in tempo reale, vanno messe in Rete. Diventando così patrimonio collettivo, stratificazione di memoria, icone del contemporaneo.
La prima straordinaria certificazione (ma dovremmo dire benedizione) è avvenuta con Papa Francesco. Lo scorso 30 agosto si è fatto fotografare in compagnia di un gruppo di ragazzi di Piacenza: il suo volto è ripreso da pochi centimetri. Il viso del Pontefice è tagliato per metà, come quello degli altri ragazzi. Si sa, come ricorda l’amato McLuhan, il mezzo fa il messaggio. E qui, il mezzo è uno smartphone, con la sua incerta qualità di definizione dell’immagine, una precarietà di visione che restituisce un senso di verità, di testimonianza, ma che poi altro non è che vera finzione. Il linguaggio imposto dal cellulare è un racconto mediato, in qualche modo completamente artefatto, anche se racconta la «verità» di un incontro realmente avvenuto. E in questo, sta il grande potere della fotografia: l’ambiguità. Un’ambiguità che la fotografia porta sempre con sé ed è implicita nella sua stessa natura.
Lo sa bene il mondo dello sport e dello spettacolo. Si scattano foto insieme con calciatori e attrici e cantanti (una sostituzione dell’autografo). Ma in particolare, le stesse protagoniste dello star system mandano in Rete le proprie, di visioni. Gli esperti di semiologia della comunicazione (ma anche i cultori del «lato B») ricorderanno l’autoscatto di Scarlett Johansson che richiamava le fotografie sofisticate e velate di Sarah Moon. Ma ora, più curiosamente, il meccanismo della certificazione di un’«esistenza relazionale» si allarga al mondo della cultura, dove a Mantova o Pordenone, nei festival letterari, gli scrittori sono star con cui immortalarsi. E tocca anche la politica. Ha fatto il giro del mondo la foto di Angela Merkel nella classica posa dell’autoscatto con un telefonino di una soddisfatta ragazza tedesca che aveva raggiunto la sua preda.
Provocatoriamente si potrebbe dire che tutti questi ragazzi — nell’autocelebrarsi in modo ossessivo, nei dettagli marginali del proprio corpo o nel cibo che mangiano, o negli oggetti che toccano — stanno inconsapevolmente rendendo omaggio al pensiero di Schopenhauer e al suo Mondo come volontà e rappresentazione. Soggetto e oggetto non possono prevalere l’uno sull’altro: la conoscenza è data dall’unione dei due, che compongono la «rappresentazione», cioè sensibilità e intelletto. C’è da chiedersi se davvero ci sia tanta sensibilità e consapevolezza nella testa dei seguaci di questa nuova estetica collettiva. Indubbiamente il selfie assolve a una funzione, nel bene e nel male: racconta la storia del nostro presente. Un presente «liquido», per dirla alla Baumann, soprattutto narcisistico, superficiale e non ideologico, certamente instabile, contorto e deformato come le immagini che appaiono sugli schermi dei cellulari e poi inesorabilmente viaggiano in Rete.
È un sentimento diffuso. Non a caso, fioriscono corsi di fotografia, workshop dove il tema del ritratto (e autoritratto) sono al centro di una riflessione tecnica ed estetica. Ma anche psicologica. Ad esempio, Monica Silva è una fotografa che da anni tiene uno di questi corsi, analizzando la fotografia come strumento di introspezione, quasi forma terapeutica per conoscersi. E c’è chi su questo ha costruito un vero centro di terapia: Rebecca Russo, laureata in psicologia clinica e specializzata in psicoterapia con indirizzo sistemico relazionale, ha inventato il «Metodo Videoinsight» introducendo l’opera d’arte contemporanea, in particolare i video d’artista, nei processi psicoterapeutici.
Certo, varrebbe la pena ricordare come la storia dell’arte, con la pittura e la fotografia, da sempre abbia celebrato se stessa attraverso l’autorappresentazione. Chi non ricorda l’autoritratto in primo piano di Leonardo? O Velázquez che ritrae se stesso mentre dipinge i reali di Spagna nel celebre Las Meninas? O l’inqueto e bellissimo Van Gogh? E lo stralunato Warhol? Proprio lui, per primo, ha intercettato quel perverso sentimento collettivo che anima i frequentatori di Facebook, il «quarto d’ora di celebrità».
Durante l’edizione del 1972 della Biennale di Venezia, Franco Vaccari aveva installato una macchina per fototessere. Il titolo dell’operazione artistica era: «Esposizione in tempo reale: lascia su questa parete una traccia fotografica del tuo passaggio». Un’azione che ha cambiato la percezione del rapporto tra fotografia, soggetto e opera d’arte. Vaccari è un artista particolare, un filosofo della fotografia. Nel 1979 scrive Fotografia e inconscio tecnologico in cui riflette sul rapporto tra rappresentazione e strumenti usati. Ricorda gli anni Sessanta: «Si era fatta l’idea che, in fondo, si vede solo quello che si sa. Ma quello che si sapeva era diventato sospetto. Con il concetto di inconscio tecnologico applicato al mezzo fotografico avevo visto la possibilità di scardinare i miei condizionamenti visivi e arrivare così a vedere quello che non sapevo».
Ma che cos’è che oggi non sappiamo? Forse non riusciamo più a vedere. Siamo diventati ciechi. Guardiamo ma non vediamo più. Non esiste la percezione, la comprensione di quello che abbiamo intorno. In un libro fondamentale per chi ama la fotografia, La camera chiara, Roland Barthes parla del punctum, quel dettaglio, quella parte magari marginale in un’immagine che colpisce la sensibilità e apre la porta all’emozione, al ricordo, alla comprensione.
Quest’attenzione, apparentemente spontanea e irrazionale, dovrebbe essere sempre attiva in ogni momento. Ma non è così. O forse è semplicemente mutata nel tempo. Ne è conferma proprio la sequenza di immagini visibili su Facebook. La tecnologia rapida, alla portata di tutti, senza sedimentazione di pensiero, ha portato all’idea che il racconto della nostra vita debba essere consumato e dimenticato all’istante. D’altronde, anche l’arte sta inseguendo questa corrente che spezza la regola dell’estetica rassicurante: alcuni fotografi di moda e certi artisti stanno intercettando da tempo queste tendenze e le fanno proprie. E pensando alle foto storiche di Nan Goldin, di Jürgen Teller o di Terry Richardson c’è da chiedersi se non sia stata proprio l’arte a spingere questa deriva estetica.
Nel frattempo cresce un grande archivio della memoria digitale che troppo spesso non produce immagini di valore. Un universo iconografico dove anche le memorie personali, un tempo affidate a preziosi album conservati in libreria, ora sono completamente disperse in un immateriale universo di immagini, non visibili e di fatto introvabili. In un passaggio di Sul guardare, John Berger scrive: «Se desideriamo rimettere una foto nel contesto dell’esperienza, dell’esperienza sociale, dobbiamo rispettare le leggi della memoria. Dobbiamo collocare la foto stampata in modo che acquisti qualcosa della sorprendente compiutezza di ciò che era ed è». E allora, la domanda è: ma vale davvero conservare la memoria di una coscia di pollo, di un piede o di un sorriso ebete? Forse sì, anche questo è il racconto del presente.
Gianluigi Colin