Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 22/09/2013, 22 settembre 2013
LE COMUNITÀ EBRAICHE TRA CONCILIAZIONE E MUSSOLINI - A proposito del breve Concordato fra fascismo e ebraismo, mi sembra di avere capito che gli ebrei non pagavano le tasse allo Stato italiano perché le versavano alla loro comunità
LE COMUNITÀ EBRAICHE TRA CONCILIAZIONE E MUSSOLINI - A proposito del breve Concordato fra fascismo e ebraismo, mi sembra di avere capito che gli ebrei non pagavano le tasse allo Stato italiano perché le versavano alla loro comunità. Possibile? Ho capito bene? Renato Ligi, Firenze Caro Ligi, approfitto della sua lettera per cercare di soddisfare la curiosità di altri lettori sullo stesso argomento. Alla sua domanda devo rispondere no: come tutti i cittadini italiani, gli ebrei pagavano le tasse allo Stato. Ma anche il denaro versato annualmente all’Unione delle comunità ebraiche era, per molti aspetti, una tassa. Per comprendere l’importanza della legge del 1931 (che regolava, tra l’altro, questa materia), occorre tornare con la mente al clima politico e religioso della fine degli anni Venti. Come lo Statuto albertino, il Concordato firmato da Mussolini e dal cardinale Gasparri l’11 febbraio 1929 proclamava che la religione cattolica, apostolica e romana era la religione dello Stato. Molti ebrei dovettero temere, non senza ragione, che la progressiva creazione di un regime autoritario e la Conciliazione con la Chiesa romana avrebbero reso l’Italia molto meno laica di quanto fosse il Piemonte dopo la fine delle interdizioni israelitiche nel 1848, e l’intero Regno d’Italia dopo la sua proclamazione nel 1861. Pochi mesi dopo la firma dei Trattati Lateranensi, vi fu una legge sui «culti tollerati», ma le comunità ebraiche desideravano maggiori garanzie e approfittarono del momento per rinnovare una richiesta che il rabbino di Roma Angelo Sacerdoti aveva già fatto a Mussolini sin dal 1927. Sacerdoti voleva una legge che contribuisse alla maggiore coesione delle comunità, garantisse la loro indipendenza finanziaria, riconoscesse le scuole, le iniziative assistenziali, il diritto di provvedere alla conservazione del patrimonio culturale e religioso dell’ebraismo italiano. Come ricorda Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, i mezzi finanziari sarebbe stati assicurati «oltre che dagli eventuali patrimoni delle Comunità e dell’Unione, da un contributo imposto su tutti gli appartenenti alle Comunità, da stabilirsi di anno in anno, in base al reddito di ciascun membro e al bilancio preventivo delle Comunità stesse». La riscossione dei contributi sarebbe stata assicurata «con le forme e i privilegi stabiliti per la riscossione delle tasse comunali». Per meglio garantire gli introiti fu anche deciso che avrebbero fatto parte delle Comunità tutti gli ebrei che avevano residenza nel loro territorio e che per uscirne, e sottrarsi così all’obbligo del contributo, sarebbe stata necessaria una formale dichiarazione di «abbandono dell’ebraismo». Le proposte di Sacerdoti furono sostanzialmente accolte. Soggetta a queste condizioni, la retta pagata dai soci diventava in effetti una sorta di tassa ecclesiastica, non troppo diversa dall’8 per mille degli italiani d’oggi e dalla Kirchensteuer prevista dalla legislazione fiscale della Repubblica federale tedesca. Sergio Romano